Sono le 22 e 25 del 13 gennaio scorso. Nella plancia della grande nave ferita un gruppo di ufficiali è alle prese con l’emergenza. Parola tra le più in voga, emergenza. Il suo etimo rimanda a qualcosa che, nascosto sott’acqua, inatteso e improvviso si mostri in superficie. E certo qualcosa si è mostrato, quella notte, nelle acque del Giglio. Non si tratta solo dello scoglio contro cui il comandante Francesco Schettino ha condotto la Costa Concordia. Quello contro cui siamo stati portati a schiantarci tutti insieme è anche una metafora. Lo conferma un filmato, più o meno anonimo, che nei giorni scorsi è emer-so, anch’esso, nel mare della nostra povera pubblica opinione. Che cosa si vede e che cosa si sente in quel filmato? Mentre la Costa Concordia va alla deriva, incapace di essere governata, in plancia c’è una calma strana. A più di mezz’ora dall’impatto, ancora non è stato dato l’ordine di abbandonare la nave. E alle 22 e 25, appunto, qualcuno avvisa Schettino: «Comandante, i passeggeri stanno cominciando a entrare da soli sulle lance». E lui: «Vabbuò, vabbuò… jà». Ci vogliono altri sei o sette minuti perché l’ordine sia dato, e altri venti circa perché le scialuppe comincino a esser calate. In fondo, tutto questo è noto. Tutto, tranne quell’imbelle, stupido «Vabbuò, vabbuò… jà». È questa la metafora contro cui abbiamo fatto naufragio. E poiché le metafore per loro natura tendono a uscir da sé e a portare ad altro, lasciamo il comandante della Costa Concordia alla sua paura e alla sua coscienza, e guardiamoci attorno. Viene fin troppo facile, ora, pensare al vabbuò interminabile del governo Berlusconi, e alle scialuppe di salvataggio mai messe in acqua. Di scogli, di falle, di motori in panne, di catastrofe neppure si voleva parlare, nella plancia del Paese. Ma, appunto, qui la metafora si applica fin troppo facilmente. Con la differenza non da poco, rispetto alla Costa Concordia, che nessun comandante sarà chiamato a render conto davanti a un giudice.
E c’è poi il fatto, di recente “emersione”, dei partiti defunti da anni, ma vivissimi per i rimborsi elettorali. Un vero e proprio commercio di anime morte – come direbbe Nikolaj Vasi-l'evič Gogol' – è stato scoperto (si fa per dire) prima nei bilanci della Margherita, poi in quelli di An, e via via in quelli di tutti gli altri. Anche in questo caso il vabbuò vale senza sorprenderci. I tempi sono tanto grami, quanto a credibilità della politica, che ci saremmo sorpresi del contrario. E intanto ci avviamo da soli alle scialuppe, sperando di trovarne.
Meno ovvio è applicarla, la metafora dell’imbelle vabbuò, alla ex più grande industria italiana, che è stata allegramente sovvenzionata con il nostro denaro per decenni, e che – in vista degli scogli – viene ancor più allegramente abbandonata da comandante e armatori. In questo caso, è improbabile che ci toccherà di trovarne qualcuna, di scialuppa. E lo stesso temiamo per le centinaia di miliardi di evasione fiscale, e per gli altri che – così si dice – stanno emigrando verso luoghi ameni con l’aiuto di un esercito di spalloni up to date. Per tacere delle corporazioni in rivolta contro la minaccia (ventilata) di una riduzione dei loro “monopoli”.
Altro che isola del Giglio. Altro che Costa Concordia. Qui si tratta di fuga plurima e reiterata dalla responsabilità da parte delle nostre élite, ammesso che lo siano, ma non concesso (come direbbe Totò, scusandosi per la rima eventuale). In compenso, nel Paese si mormora che ci siano tra noi innumerevoli privilegiati. E si aggiunge che il privilegio consisterebbe nell’avere un lavoro, magari tutelato dall’articolo 18, o addirittura nell’onta di una pensione. Che cosa possiamo rispondere a questi zelanti giudici e custodi della morale sociale? Forse «Vabbuò, vabbuò… jà», ma con l’aggiunta di un invito più perentorio, e più rozzo. Metaforicamente parlando, s’intende.