La crisi e la polveriera dei Balcani occidentali. Seppure con un po’ di ritardo, la crisi economica e finanziaria mondiale ha cominciato a far sentire i suoi effetti anche nell’area cosiddetta dei “Balcani occidentali”. Qui, tuttavia, le ripercussioni possono tradursi in una nuova ondata destabilizzatrice a causa della persistente precarietà istituzionale che ancora caratterizza la regione. In realtà, sia detto per inciso, la nozione di “Balcani occidentali” è fuorviante: anche se ad essa è stata aggiunta, dalla burocrazia comunitaria, l’Albania (che, con lo spazio culturale jugoslavo, non condivide nemmeno un’eredità comunista simile, vista la distanza abissale che separa Tito da Hozha), tanto le guerre degli anni Novanta quanto l’instabilità regionale che ancora si avverte sono riconducibili esclusivamente al processo di disgregazione, iniziato nel 1991 e non ancora concluso, della federazione fondata da Tito. Nessuno dei Paesi limitrofi è stato militarmente coinvolto in quel processo e solo l’Albania ha sofferto di alcune ripercussioni, di natura soprattutto sociale, durante il breve periodo dei bombardamenti NATO contro Serbia e Montenegro nel 1999. Dunque, non si capisce perché si debba parlare di “Balcani Occidentali”, quando l’intreccio fra crisi economica e precarietà politico-sociale riguarda il territorio compreso fra Slovenia e Macedonia ed è ad esso, infatti, che dovrebbero dedicare particolare attenzione l’Europa e, soprattutto, l’Italia, paese che condivide un lungo confine, di terra e di mare, con lo spazio culturale jugoslavo.
Nonostante, infatti, l’ingresso sloveno nella UE e nell’area euro, l’entrata di Albania e Croazia nella NATO, l’avvio dei negoziati per l’accesso di Zagabria alla UE, alcune importanti riforme (come quella della polizia) in Bosnia-Erzegovina, l’arresto di Radovan Karadžić in Serbia e un generale piglio riformatore che ha avviato, con il volgere del secolo, la transizione verso la democrazia e l’economia di mercato delle repubbliche succedute alla Jugoslavia, il quadro politico-istituzionale resta esposto alla destabilizzazione.
Basti qui solo ricordare il conflitto territoriale sloveno-croato, che ha bloccato i negoziati fra UE e Croazia, o il montare delle tensioni fra le entità della Bosnia-Erzegovina (specie quando si tocca la delicata questione della riforma costituzionale) o, ancora, il rifiuto della Serbia di riconoscere l’indipendenza del Kosovo, mentre si perpetuano le tensioni fra Atene e Skopje sulla questione del nome dello stato macedone: tutto ciò aiuta a comprendere quanto sia ancora fragile il quadro regionale. La parallela crisi della UE, iniziata nel 2005 con il rigetto del Trattato costituzionale da parte di Francia e Olanda, e proseguita con il rifiuto di quello di Lisbona da parte dell’Irlanda, ha contribuito a raffreddare gli entusiasmi verso il processo d’integrazione e indebolito la capacità di convincimento della “condizionalità europea” nelle aree destabilizzate d’Europa.


È in questo contesto che si è venuta inserendo la crisi finanziaria mondiale, esplosa nell’autunno del 2008. A quella data, le economie post-jugoslave erano ancora in larga misura alle prese con la ricostruzione post-bellica, stentavano a sviluppare la cooperazione regionale (soprattutto a causa di resistenze politiche dovute al timore di vedere “ricostituita” la Jugoslavia) e presentavano uno sviluppo economico fragile, nonostante la crescita del 7,5% del PIL nel 2007 in Serbia, del 6.8% in BiH; del 5.6 in Croazia, 5,9% in Macedonia (dati Eurostat). La fragilità risiedeva, in particolare, nella forte dipendenza dal commercio con i mercati della UE, dall’intensità delle rimesse degli emigrati, nonché da una presenza sempre più incisiva dei sistemi bancari esteri in grado di acquisire la proprietà sugli istituti finanziari locali. E, infatti, con la crisi del 2008 è successo che:
1. Le rimesse degli emigrati hanno cominciato a calare drasticamente, secondo alcuni calcoli fra il 10 e il 20%, con un impatto negativo soprattutto per le economie di Albania, Kosovo, Macedonia e Bosnia-Erzegovina;
2. Le banche locali hanno adottato comportamenti simili alle altre istituzioni finanziarie in Europa e negli Stati Uniti, restringendo il credito e riducendo la disponibilità di liquidi, con il risultato di esporre le piccole e medie imprese al rischio di chiusura, mentre si registrava una crescente difficoltà delle famiglie a pagare con regolarità i mutui;
3. La crisi internazionale ha accentuato l’esposizione di alcuni istituti finanziari, in particolare di quelli austriaci che presentano una diffusione capillare nella regione: una crisi di queste banche potrebbe pertanto avere effetti rovinosi proprio nei Balcani;
4. la disoccupazione è tornata ad aumentare: a cavallo fra 2008 e 2009 essa viaggiava sul 15% in Croazia; era attorno all’11% in Montenegro; superava il 40% in Kosovo e nella Federazione di Bosnia-Erzegovina: nel solo mese di marzo 2009 sono stati registrati 10.000 licenziamenti nella Federazione e 4.000 nella Republika Srpska, mentre la disoccupazione in Serbia si sta ormai avvicinando al 14%.
5. proteste e manifestazioni di massa hanno preso ad intensificarsi e gli stessi sindacati, che peraltro non sono particolarmente forti, hanno annunciato una crescita degli scioperi. Particolarmente drammatico è stato in Serbia lo sciopero della fame, promosso lo scorso aprile da una dozzina di operai della fabbrica Partizan di Kragujevac, e durato ben 18 giorni.
6. Anche i dati dei primi mesi del 2009 relativi ad esportazioni ed importazioni segnalano cali vertiginosi, fra cui un -25% delle importazioni e -5.8% delle esportazioni in Croazia; in Montenegro si è registrato invece un calo del 26% delle esportazioni and + 7% delle importazioni; in Serbia si è avuto un crollo del 35% delle esportazioni e del 36,4% delle importazioni, nonché una caduta della produzione industriale di oltre il 21% nel solo mese di aprile (rispetto ad un anno prima). 
Tutti questi dati, tuttavia, dicono ancora poco sul reale impatto che la crisi può avere nella regione. Il ragionamento, infatti, va sviluppato più sull’onda della lunghezza della crisi che su quello della sua profondità. Una crisi dura, ma breve, potrebbe innescare ripercussioni meno drammatiche, sul piano psicologico e politico, rispetto ad una crisi di lunga durata, specie se aggravata da un calo degli investimenti diretti internazionali.


Le popolazioni dello spazio jugoslavo hanno già vissuto l’esperienza della crisi degli anni Ottanta, cui è seguito (dopo il breve respiro della ripresa economica ai tempi del governo federale di Ante Marković) lo smembramento violento del Paese. Il ritorno ad una fase recessiva dopo i pochi anni di ripresa economica di questo decennio rischia, pertanto, di avere effetti devastanti sul piano sociale, colpendo nel profondo le aspettative, tanto frustrate, delle popolazioni.
Soprattutto, ciò che si deve temere è il ricorso al protezionismo. Esso è già stato annunciato in diversi Paesi dell’Unione europea e la tendenza fa capolino anche fra le fragili economie balcaniche, dove è in corso una guerra commerciale fra Croazia e Bosnia-Erzegovina su prodotti alimentari, mentre il Parlamento di Sarajevo ha approvato in aprile una legge che impone tassi doganali ai danni di Croazia e Serbia, violando gli accordi di libro scambio del CEFTA, cui pure la Bosnia-Erzegovina appartiene. Politicamente e culturalmente, il ricorso al protezionismo è foriero di gravi tragedie nello spazio jugoslavo. All’inizio degli anni Ottanta, quando la crisi economica cominciò ad attanagliare quel Paese, si registrò subito una crescita di ciò che venne allora chiamato il “nazionalismo economico”: le repubbliche, cioè, cominciarono a sostenere una sorta di protezionismo locale che colpì a morte il mercato interno, compiendo così il primo passo verso lo smembramento del Paese.
La “sindrome jugoslava” potrebbe, allora, tornare ad operare in un contesto ancora segnato da profonde incertezze sul futuro istituzionale e territoriale degli Stati successori: la tenuta della Bosnia-Erzegovina, il futuro del Kosovo e della Serbia così come quello della Macedonia – posta sotto pressione dalla Grecia – rischierebbero di essere messi in gioco, con gravi effetti per la stabilità regionale. In uno scenario del genere si deve solo sperare che la UE torni ad agire da protagonista ricuperando iniziativa. Altrimenti, un eventuale rafforzamento delle spinte protezionistiche nella UE e un ulteriore rinvio del processo di “approfondimento” dell’integrazione europea potrebbero accentuare la contraddittorietà dei trattati di pace firmati tra il 1995 e il 2001 e sospesi fra integrazione e polverizzazione geopolitica: se ciò dovesse avvenire, la spinta alla disgregazione riprenderebbe forza, annullando gli sforzi politici, economici e culturali finora compiuti per consolidare la fragile pace fra l’Adriatico e il Danubio. Con quali conseguenze è facile prevedere.