I profeti armati. Il 20 dicembre l’aeroporto internazionale di Tripoli è stato teatro di un conflitto a fuoco tra le opposte fazioni ribelli che hanno concorso alla caduta del regime di Gheddafi. Le milizie di Zenten e di Misurata, che controllano l’aeroporto fin dalla liberazione di Tripoli, si sono opposte all’esercito nazionale, espressione del Consiglio nazionale di transizione (Cnt) libico. Lo stesso giorno era infatti previsto l’arrivo, dalla zecca tedesca, di diversi miliardi di dinari libici decongelati.

La ricostruzione della Libia post-Gheddafi è davvero destinata a riprodurre lo scenario di perpetua instabilità a cui ci hanno abituato la Somalia o l’Iraq? Le dinamiche recenti sembrano fornire indizi allarmanti in questo senso. Il richiamo alle storiche frammentazioni tribali della Libia, tuttavia, rischia di lasciare in ombra un aspetto strategico di prima importanza: dietro alle tensioni fra milizie libiche è infatti possibile intuire le manovre delle potenze straniere che hanno concorso alla caduta di Gheddafi. È soprattutto a partire dalla liberazione di Tripoli e dall’uccisione del Colonnello che si è definitivamente aperta la contesa all’interno del fronte ribelle. Le fazioni islamiste, che hanno contribuito in maniera determinante a queste battaglie, non si ritengono sufficientemente rassicurate né dalle dichiarazioni del leader del Cnt, Jalil, che ha annunciato che la sharia sarà il fondamento giuridico della nuova Libia, né dalla nomina del nuovo governo guidato dal libico-statunitense Abdurrahim El Keib, che di fatto li estromette dai ruoli di maggiore responsabilità.

Ai vertici dell’apparato militare del neonato esercito nazionale, gli Usa sono riusciti a ottenere la nomina di Khalifa Hifter, ex leader militare del Fronte nazionale per la salvezza della Libia, il cui passato si intreccia senza mistero con le trame predisposte dalla Cia per sovvertire il regime libico fin dagli anni Ottanta. In realtà l’esercito sedicente nazionale è piuttosto simile a una brigata “locale”, radicata nella regione di Bengasi, che stenta a vedere riconosciuta una legittimazione super partes. Gli inglesi, per bocca del ministro della Cooperazione, sembrano invece favorire il riciclo dell’apparato poliziesco e militare del Colonnello, “onde evitare di ripetere gli errori commessi in Iraq”; sulla stessa linea l’Italia può compiacersi della recente nomina al ministero del Petrolio di Abdulrahman Ben Yezza, funzionario della compagnia petrolifera nazionale sotto Gheddafi e uomo di fiducia dell’Eni in Libia. Roma intrattiene inoltre rapporti con l’erede al trono libico Mohammed Senussi, la cui bandiera è l’emblema dei rivoluzionari: la restaurazione della monarchia è infatti parte del programma della Conferenza Nazionale dell’Opposizione Libica, riunita a Londra fin dal 2005, e organizzatrice della manifestazione del 16-17 febbraio che ha inaugurato la rivoluzione.

Gli islamisti denunciano, non senza fondamento, le collusioni di numerosi membri del nuovo governo col precedente regime, e l’estraneità al processo rivoluzionario di alcuni tecnocrati paracadutati dall’estero. Il loro portavoce, nonché leader autonominato del Consiglio militare di Tripoli, è il discusso Abdul Hakim Belhaj, già membro del Gruppo islamico combattente della Libia, organizzazione che ha fornito numerosi quadri e combattenti ad Al-Qaeda, e che figura sulla lista delle organizzazioni terroristiche proscritte dalla risoluzione 1267 dell’Onu. Rinchiuso da Gheddafi nel carcere di Abu Salim, ha in seguito scritto gli Studi correttivi sulla comprensione della Jihad, in cui si predica la fine della lotta armata e la liberazione dei prigionieri politici religiosi. Va osserato che Ali-Sallabi, carismatico mullah libico esiliato in Qatar e vicino ai fratelli musulmani, è coautore dell’opera e che la rete Al-Jazeera (partecipata dall’emiro del Qatar) ha esplicitamente contribuito alla sua pubblicizzazione. Con un abile impiego degli strumenti di potere soft e hard, il Qatar ha costruito l’egemonia delle brigate islamiste sul fronte occidentale: dei 18 aerei carichi di armi pesanti e munizioni destinati ai ribelli dal Qatar, 13 non sono passati per i canali autorizzati dal Cnt, ma sono stati messi direttamente a disposizione della Brigata 17 Febbraio, comandata da Belhaj. Inoltre Al-Jazeera ha offerto il proprio aiuto a Belhaj, la cui promozione alla testa del Consiglio militare di Tripoli sembra che sia stata conquistata, più che per meriti militari, grazie a una sapiente promozione mediatica.

Il Qatar non nasconde i propri legami con i Fratelli musulmani, recentemente trionfanti alle elezioni in Tunisia e in Egitto (anche grazie all’appoggio finanziario dell’emiro). Il chiaro tentativo di condizionare il disegno della nuova Libia ha sollevato le preoccupazioni di Hillary Clinton, oltre che dei vertici militari francesi e della Nato. Nel frattempo gli iniziali ispiratori della rivoluzione, giuristi e attivisti dei diritti umani, si trovano confinati in incarichi puramente onorifici e de facto estromessi dai giochi, a riprova della massima machiavelliana secondo cui “li profeti armati vinsono, e li disarmati ruinorno”. E se ha ragione Machiavelli, il disarmo delle milizie ribelli, presupposto di una Libia pacificata, è lungi dall’avverarsi.