I fantasmi della memoria. Aprendo il primo racconto delle sue Leyendas de Guatemala, il Nobel della letteratura Miguel Ángel Asturias descriveva un carretto silenzioso che arrivava in un villaggio, superando «un passo oggi e uno domani», a scandire i contorni di una nazione irrisolta che segue propri ritmi e propri tempi, quasi nascosta dal mondo esterno. Eppure in tempi di migra, globalizzazione della finanza, dei commerci e della criminalità, questo elemento rischia di divenire sempre più paradossale. Paese con pessimi indici di distribuzione della ricchezza e segnato nel proprio tessuto sociale da ferite antiche (la profonda segmentazione razziale ereditata dalla colonia e acuitasi negli anni della república cafetalera e in quelli della guerra fredda) e recenti (il proliferare del narcotraffico e della violenza di genere), il Guatemala ha faticato più di altri Stati centroamericani a uscire dalla logica della polarizzazione interna violenta. Dopo la lunga e tragica guerra civile (conclusasi nel 1996, con una stima di oltre 200.000 vittime), non ha intrapreso un processo di ricostruzione politica basato sullo smantellamento dei vecchi corpi militari e giuridici che dal golpe del 1954 avevano guidato le cangianti logiche della controinsurgencia, né ha avviato un piano di riforme strutturali, a cominciare dalla vecchia chimera della riforma agraria.

Nel 2007 l’elezione di Alvaro Colóm, del centrista Partido de Unidad para la Esperanza, aveva suscitato un certo interesse nella comunità internazionale, facendo ipotizzare una svolta che in realtà non c’è stata. Schiacciato dagli effetti della crisi economica, dal drastico calo delle rimesse, dall’incremento della violenza legata alla proliferazione della criminalità organizzata (in un’area del mondo divenuta strategica per i passaggi di droga), il piano moderatamente riformista del governo si è via via impantanato tra scandali, resistenze e problemi di diversa natura. Il maldestro tentativo di Colóm di farsi succedere dalla primera dama Sandra Torres (a imitazione della formula argentina Kirchner/Fernández), con tanto di falso divorzio per aggirare la legge elettorale che vieta la candidatura di familiari del presidente, è fallito sul nascere, indebolendo la proposta centrista.  In vista delle nuove elezioni il dibattito si è quindi incentrato da subito sulla violenza, in un Paese impaurito da narcos, sequestri e feminicidios e che registra uno dei tassi di omicidi più alti al mondo. Questo ha spinto i partiti a rilanciare e riadattare le ricette della mano dura, lasciando sullo sfondo le politiche di lotta alla povertà (anche l’indice Gini, di polarizzazione della ricchezza, è però tra i più squilibrati al mondo). Accese polemiche si sono invece concentrate intorno ai possibili finanziatori occulti dei diversi candidati, in quella che è risultata di gran lunga la più costosa campagna elettorale nella storia del Guatemala. 

La partita politica si è giocata tra le forze politiche rappresentative delle diverse anime della destra. Dei dieci candidati ammessi alle presidenziali, il primo turno, l’11 settembre, ha visto imporsi, con il 36,1% dei voti, un ex militare, Otto Pérez Molina, del Partito Patriottico (Pp), davanti al leader della destra populista, Manuel Baldizón, di Libertad Demócratica Renovada (Lider), con il 22,68%, Eduardo Suger di Compromiso Renovación y Orden (Creo), della destra neoliberale, con il 16,62%, Eduardo Estrada di Unión del Cambio nacional (Ucn) con l’8,2% e il pastore evangelico Harold Caballeros, di Visión y Valores (Vv), con il 6,24%. Come già nel 2007, il Nobel per la pace Rigoberta Menchú, sostenuta dalla coalizione Frente Amplio, che riunisce il movimento indigenista Winaq e forze della sinistra sociale, non è andata oltre il 3,22%, a dimostrazione della perdurante frammentazione e dell'assenteismo politico dell’elettorato indigeno (i votanti sono apparsi però in crescita, attestandosi al 68,4%, ma calando poi al 60% al secondo turno).

Pérez Molina si è quindi confermato al ballottaggio del 6 novembre, con il 53,74% dei voti, e il suo partito ha ottenuto la maggioranza relativa al Congresso (per la settima legislatura dalla riforma costituzionale del 1985), con 56 seggi (su 158), contro i 48 della coalizione tra Une e Gran Alianza Nacional (Gana) e i 14 di Ucn e Lider. Si è dunque rotta una regola non scritta (l’assegnazione della presidenza a un civile) che aveva retto dalla fine della guerra.

Sessantunenne, come buona parte dei quadri militari guatemaltechi della sua generazione il nuovo presidente si è formato nella Escuela de las Américas e nel Collegio di difesa interamericano. Nel suo curriculum si trova la direzione dei servizi segreti militari e l’incarico di ispettore generale delle forze armate negli anni della loro riorganizzazione. Dopo il golpe interno all’esercito, orchestrato da Óscar Mejía contro il dittatore Efraín Ríos Montt, a metà anni Ottanta visse in prima persona il passaggio dalle politiche di tierra atrasada alla guerra de baja intensidad. Contribuì a sventare il tentato golpe del presidente Serrano del 1993, fu quindi capo dello Stato maggiore presidenziale e soprattutto rappresentante dell’esercito nei negoziati che portarono agli accordi di pace del 1996. Ha poi fatto parte del Comitato di difesa interamericano, prima di ritirarsi a vita privata a fine anni Novanta.

Alcuni gruppi di tutela dei diritti umani (il Waqib Kej) lo accusano di aver preso parte ai massacri di contadini maya negli altipiani del Quiché, e Francisco Goldman lo sospetta di legami con i circoli militari coinvolti nell’assassinio del vescovo Juan Gerardi: imputazioni sempre seccamente smentite dal diretto interessato. Il suo ingresso in politica risale al 2001, quando, subendo una serie di intimidazioni e attentati, fondò il Pp, inizialmente aderendo alla coalizione di destra Gana. Deputato dal 2003, nel 2007 perse la sfida alle presidenziali con Colóm. In attesa del suo insediamento (previsto per metà gennaio), insieme alla vice Roxana Baldetti, Pérez Molina ha lanciato un appello all’unità nazionale. La priorità parte dall’urgenza di ridurre la violenza ma, come ribadito dalla Cepal, anche di varare programmi di sviluppo, crescita e Welfare in un Paese impaurito e che non ha ancora fatto i conti con il proprio passato.