Nel mondo accademico, da tempo e da più parti si sottolinea con forza come i criteri di valutazione delle pubblicazioni formulati dall’Anvur (l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) siano troppo astratti e “brutali”, soprattutto se applicati alle discipline umanistiche. Quantità di citazioni (il cosiddetto impact factor), presenza o meno delle riviste in elenchi internazionali compilati in base a criteri discutibili e talora poco chiari, maggiore importanza attribuita ai lavori redatti in lingue straniere (a prescindere dalla loro ampiezza e dal loro impegno): tutti parametri, si dice, che forse possono funzionare per gli scienziati, ma che certo sono impropri in ambito umanistico, dove capita spesso che lavori serissimi vengano poco citati, che riviste serissime facciano fatica a rispettare certi requisiti formali (la puntualità delle uscite, ad esempio, o la presenza nella maggior parte delle principali biblioteche internazionali), che le riviste e le case editrici più qualificate siano italiane e pubblichino prevalentemente in italiano.

Tutto ciò, almeno in parte, è vero; ma non è chiaro quale possa essere l’alternativa. Infatti, ove non si voglia difendere l’ormai indifendibile diritto a non essere valutati (e a non far dipendere dalla valutazione stipendi, carriere, finanziamenti), dovrebbe essere evidente che una valutazione davvero imparziale non può entrare nel merito di ciò che si pubblica, non può, in altre parole, formulare giudizi di valore previa lettura analitica delle pubblicazioni. La valutazione di merito deve essere eseguita a monte, da riviste e case editrici che adottino seriamente il metodo della peer-review, svolgendo una funzione di filtro che non può spettare a un organismo nazionale e che pertanto questo organismo nazionale non può non prendere per buona. D’altronde, chi mai potrebbe leggere la mole enorme di ciò che si pubblica in campo umanistico? Poiché la valutazione deve essere permanente (cioè non deve riguardare solo i candidati ai concorsi, ma ogni docente e ogni ricercatore in tutte le fasi della sua carriera, e da essa devono dipendere anche i destini dei dipartimenti e degli atenei), sarebbero necessari eserciti di professori-valutatori addetti solo a questa mansione, i quali di conseguenza dovrebbero per anni astenersi dall’insegnamento e dalla ricerca; ma – a tacere della spesa che ciò comporterebbe, e dell’assurdità costituita dal fatto che i migliori studiosi dovrebbero spendere gran parte delle loro energie per valutare il lavoro altrui, anziché per lavorare in proprio – chi non fa ricerca quotidianamente, come potrebbe giudicare la ricerca altrui?

Inoltre, poiché, a quel punto, logica vorrebbe che ogni studioso fosse valutato da colleghi della propria disciplina, si aprirebbe la porta al conflitto di interessi e allo scambio di favori, mali endemici ed atavici della nostra accademia, non certo aggirabili con un anonimato che nell’era di Internet si rivela sempre più un’illusione o un trucco. Il professor Tizio, specialista di Platone, valuta i lavori su Platone del collega Caio, e alla tornata successiva il professor Caio valuterà i lavori su Platone (o su argomenti affini) del collega Tizio o di qualche allievo suo. E difficilmente, per ovvie ragioni, uno dei due vorrà pestare i piedi all’altro, anzi non avrà difficoltà ad ammettere che l’articoletto di dieci pagine che l’esimio collega ha pubblicato sulla rivistina del suo dipartimento, pur breve e pur non accompagnato da una produzione assidua e cospicua, ha grande valore scientifico e cambia il nostro modo di intendere Platone.

Un'altra questione cruciale è rappresentata dal criterio della quantità. Chi pubblica molto – si sente dire spesso – a volte studia poco, non approfondisce abbastanza, cade nella superficialità. «Diffidare di chi sforna quindici articoli e un libro all’anno; una bibliografia abbondante non è requisito necessario né tanto meno sufficiente del bravo studioso». Siamo tutti d’accordo, in linea teorica, sul fatto che il criterio della quantità è, da solo, inadeguato e improprio, e che due brevi articoli solidi e innovativi siano da preferire a tre ponderosi volumi che, pur ineccepibili quanto a metodo o a documentazione, poco o niente aggiungono a quanto sappiamo. Ma il ragionamento, all’atto pratico, non regge e soprattutto non sfugge al sospetto di essere confezionato ad arte per giustificare promozioni concorsuali di candidati decisamente poveri di titoli. Mi limito a sottolineare due punti. Innanzitutto l’accademia non è riservata a pochi geni che distillano intuizioni brillanti, anzi una funzione didattica e scientifica ben più rilevante vi svolgono senza dubbio i ricercatori operosi che assicurano un’attività regolare e continua nel tempo (soprattutto in campo umanistico, dove il sapere è fondato in prevalenza sull’accumulo delle conoscenze e sulla capacità di metterle in reciproca relazione). Secondariamente è possibile che il criterio quantitativo premi qualche studioso mediocre, ma certamente consente di smascherare le falangi di ricercatori inoperosi. Inoltre, il rischio di penalizzare un grande genio è minimo (chi pubblica poco non è un Einstein, è solo uno che studia poco), e si tratta di un rischio che vale la pena di correre, a fronte degli indubbi benefici che scaturiscono dalla semplice e banale conta delle pubblicazioni.

In conclusione: l’unica valutazione oggettiva e imparziale (nei limiti del possibile, s’intende) è quella che si fonda su criteri “estrinseci”; e la battaglia giusta non è quella per sostituirli con l’improponibile e impossibile valutazione di merito, ma quella per cercare di perfezionarli, di calibrarli sulle specificità dei singoli settori e di combinarli fra loro in modo da compensare le rigidità e i limiti che ciascuno di essi inevitabilmente presenta.