Più d’uno, nelle scorse settimane, ha sostenuto la fine del progetto federalista in Italia. Affermare che il processo di costruzione del “federalismo fiscale” si sia già arenato o stia comunque per arenarsi si fonda su due ottimi motivi.

Il primo è di carattere economico-finanziario. Nella zigzagante e un po’ imbarazzante costruzione delle diverse versioni delle manovre finanziarie, questo governo ha tenuto sempre un punto fermo. Scaricare il grosso delle riduzioni della spesa su regioni ed enti locali. Il motivo attiene alla comunicazione politica. Quando, progressivamente, se ne vedranno gli effetti (sui servizi comunali, sul Welfare, sul trasporto pubblico locale) l’ira dei cittadini si scaricherà sulle regioni e sugli enti locali; non sarà semplice comunicare che l’asilo è chiuso, o che le rette si impennano, per decisione di Tremonti. Il costo di queste non proprio coraggiosissime scelte rischia però di essere sensibile: la costruzione di un diverso sistema di finanziamento dei livelli periferici di governo per il futuro si scontra con l’assoluta carenza di risorse per le funzioni di base per il presente. Difficile fare patti chiari in questa situazione.

Il secondo è di carattere tutto politico. Come noto, in Italia c’è un partito secessionista. Le sue proposte sono fuori dal dettato costituzionale; ma, per le vicende politiche nostrane, non solo quel partito fa parte pienamente del gioco politico, ma è anche al governo; ed è anche quello che ha in mano la partita del federalismo fiscale. Se anche qualcuno avesse avuto dei dubbi in passato, oggi è davvero difficile averne.Che credibilità può avere un processo di riorganizzazione di uno Stato guidato da esponenti politici che ne vogliono la dissoluzione? La circostanza che Bossi e Calderoli siano ministri della Repubblica italiana appare sempre più come un tragico scherzo di una fase storica di declino, innanzitutto morale, del nostro Paese.

Ma ci sono anche due motivi, opposti, per dubitare che sia così, cui va rivolta la nostra attenzione.

Il primo è di carattere normativo. Abbiamo una legge dello Stato. E abbiamo una serie di decreti attuativi. Il quadro che ne emerge è parziale, scombinato, pericoloso (si leggano le analisi di Marco Cammelli per averne piena contezza). Ma sono stati approvati. Bisognerebbe rivederli radicalmente, a cominciare dal “fisco comunale”; e completarli. Ma stanno cominciando a produrre i loro effetti: in non pochi casi negativi, comunque assai incerti. Se anche il federalismo è morto, prima di morire ha fatto in tempo a lasciare una velenosa eredità.

Il secondo viene da un’analisi anche solo superficiale, della realtà. All’Italia serve una profonda riorganizzazione dei livelli di governo, delle loro competenze, delle loro modalità di finanziamento. Se muore il federalismo torniamo a come eravamo prima, e non è affatto una buona notizia. Certo, serve un processo serio. Non guidato dai Calderoli attenti solo a quanti euro spettano ai propri collegi elettorali, o dai Tremonti attenti solo a scaricare sugli altri gli effetti dei tagli. Ma da un’idea antica: cambiare l’organizzazione della Repubblica per renderla maggiormente in grado di soddisfare in modo finanziariamente più sostenibile, a tutte le latitudini e a tutti i livelli, bisogni essenziali dei suoi cittadini: dall’istruzione alla sanità, dall’assistenza alla mobilità.

Se verremo fuori da questa grande crisi (non solo quella finanziaria, ma quella complessiva del nostro Paese) sarà anche perché saremo stati in grado di ridisegnare alcune fondamentali funzioni pubbliche: il loro costo e la loro efficacia.

Se muore il “federalismo”, allora, è una buona notizia: è il prerequisito per realizzare davvero un forte decentramento. Solo se riusciremo a mandare in soffitta Calderoli, con la sua camicia verde, il suo orizzonte valligiano e la sua terminologia, potremo ricominciare a pensare a come riorganizzare seriamente il Paese, per quadrare il difficile cerchio dell’efficienza, della responsabilità, dei diritti sociali.