Lasciando da parte le sciocchezze su una riforma del Senato che metterebbe addirittura a rischio la democrazia, ci possiamo prendere il lusso di una riflessione controcorrente. Perché su un tema tanto delicato è mancata innanzitutto, anche da parte di personaggi che dovrebbero essere qualificati, la consapevolezza di quale fosse il nucleo della questione.
Basterebbe avere letto gli atti della nostra Assemblea Costituente, per sapere che all’origine della formazione di una “seconda Camera” c’era il tema classico di trovare un sistema di “rappresentanza” che fosse diverso dalla rappresentanza delle opinioni e dei programmi che si esprimono attraverso la selezione di un personale politico imperniato su di essi. Allora ciò avveniva attraverso i partiti. Questa diversa rappresentanza, scartata l’ipotesi di farla risiedere nella rappresentanza dei corpi sociali organizzati (la reminiscenza del corporativismo fascista non deponeva a favore), fu individuata negli enti locali. La prima proposta prevedeva infatti un Senato eletto per un terzo dalle Assemblee Regionali (ancora da istituire all’epoca) e per due terzi dai consigli comunali. Attraverso un lungo e travagliato dibattito, alla fine questo impianto fu abbandonato. In fondo la gran parte dei costituenti, che erano uomini di partito, volevano una seconda Camera in cui fosse possibile tentare contromosse verso l’egemonia politica che si pensava si sarebbe affermata nella prima. I liberali e i loro alleati spinsero per avere la differenza di rappresentanza basata invece che sulla proporzionale, sul collegio uninominale. Pensavano che così sarebbe stato loro possibile aggirare il dominio proporzionalistico che la Dc esercitava su quello che pensavano fosse storicamente il loro elettorato tradizionale. Il Pci, e in specie Togliatti, sposò con un tatticismo repentino questa tesi, convinto anch’esso che ciò potesse al Sud nuocere alla Dc e al Nord consentire la vecchia politica dei “blocchi” almeno laddove i comunisti erano abbastanza forti.