La transizione confusa dalla Prima alla Seconda Repubblica – a una vera Seconda Repubblica – è a uno snodo importante. Non sono così ottimista come Stefano Ceccanti, il quale asserisce, già nel titolo del suo ultimo libro, che La transizione è (quasi) fini-ta (Giappichelli, 2016). Le transizioni di regime, come gli esami, non finiscono mai. E poi, nel caso in cui la riforma costituzionale venga approvata nel referendum di ottobre, sarà solo il tempo a dirci se una transizione c’è stata e soprattutto se i suoi esiti miglioreranno il funzionamento delle istituzioni democratiche del nostro Paese e le condizioni di vita dei suoi cittadini.
Ma nella storia politica e istituzionale di un Paese ci sono tornanti, svolte, snodi significativi, e la riforma costituzionale di cui parliamo appartiene a quest’ordine di eventi. È la svolta che ci consente di parlare propriamente – come ne parlano i francesi – di Seconda Repubblica, non nel modo improprio in cui ne abbiamo discusso negli ultimi vent’anni, dopo la fine ingloriosa della Prima a seguito della riforma elettorale del 1993 e delle elezioni politiche del 1994. Ed è la svolta che segna l’adattamento, in grave ritardo, della democrazia italiana e del nostro sistema istituzionale a tre passaggi storici epocali, che hanno segnato il contesto politico ed economico mondiale degli ultimi trent’anni.
Il primo è la fine della guerra fredda, del bipolarismo mondiale tra democrazie liberali di mercato e sistemi a partito unico ed economia pianificata.