La campagna per il referendum costituzionale è appena entrata nel vivo, come si dice, eppure siamo già esausti. Appena finito di scrivere questa nota, ad esempio, il sottoscritto ricomincerà a battere coscienziosamente palcoscenici di provincia, incrociando le armi con rivali ancora più stanchi e meno convinti di lui. Il format dell’Evento, infatti, sembra definitivamente diventato il faccia-a-faccia: che ovunque si svolga – sul video, o in incontri pubblici – riscuote il consenso di tifoserie entusiaste.
Di solito, funziona così. Il sostenitore del «sì», spesso giovane e bello(a), snocciola convinto(a) i pregi della Renzi-Boschi; talvolta, specie se meno giovane e meno bello(a), sospira che, dopotutto, questa riforma è sempre meglio di niente. Il sostenitore del «no», specie se è un ex presidente della Corte costituzionale, spiega in modo sofferto i pericoli della riforma; se è solo un politico d’opposizione, invece, si limita a scalmanarsi contro il presidente del Consiglio.
I risultati sono alterni. In genere, prevalgono o i sostenitori del «sì» o quelli del «no», indifferentemente, purché si guardino bene dall’entrare nel merito. Anche perché, diciamolo, cosa dovremmo dire del merito? Cos’è meglio, il troppo poco o il quasi niente? Il «sì» a una riforma inutile se non controproducente, oppure un «no» che non indica uno straccio di alternativa? È un po’ come nelle dispute teologiche: più il quesito è confuso, più la discussione rischia di durare per secoli.