Le «primarie» sono un aspetto importante della breve storia dell’Ulivo e del Partito democratico. Chiarisco subito che mi atterrò all’uso, improprio rispetto al modello americano, di chiamare primarie anche consultazioni che non hanno come obiettivo quello di scegliere il candidato di un partito o di una coalizione a una carica istituzionale (in Italia: sindaco, presidente di regione, presidente del Consiglio): consultazioni aperte a non iscritti per scegliere cariche di partito sono spesso chiamate impropriamente primarie e anche a queste mi riferisco. Insomma, l’aspetto sul quale volevo fissare l’attenzione è l’apertura o la chiusura del «selettorato», come i politologi chiamano i partecipanti all’elezione, più che non la natura della cariche per le quali le primarie sono convocate.
Fisso l’attenzione su quest’aspetto per sottolineare che l’uso delle primarie è strettamente legato alla crisi della tradizionale democrazia del «partito-associazione», nella quale i soci (gli iscritti) eleggono a maggioranza e a cascata gli organi dirigenti: dai segretari di circolo sino alla direzione nazionale, da questa alla segreteria e da ultimo al segretario. Questo modello di democrazia – con la crisi del partito ideologico di massa, espressione di stabili fratture storiche – non funziona più: non assicura oggi che un partito si dia organi interni e candidati a cariche istituzionali attraenti per gli stessi elettori che simpatizzano con le politiche sostenute dal partito e con i suoi orientamenti ideologici. Gli iscritti – i soci – sono pochi, sempre di meno; i simpatizzanti sono potenzialmente assai più numerosi. Gli iscritti sono appassionati di politica, diversi dai simpatizzanti che se ne occupano occasionalmente. Gli iscritti sono spesso eredi di vecchie divisioni culturali, di correnti e fazioni radicate nel passato, e rischiano di non avvedersi di quanto stia mutando la società alla quale si rivolgono.