No, anche se cambiamo panorama, consideriamo 133 Paesi, arricchiamo la gamma di nuovi indicatori, la sostanza del messaggio non cambia: l’Italia non primeggia mai. Recentemente, abbiamo qui ampiamente discusso le (poche) luci e le (molte) ombre dell’Italia digitale,
Il dibattito degli ultimi mesi sulla riforma elettorale si è imperniato su affermazioni propagandistiche dell’una e dell’altra parte, che non è difficile smontare senza dover scomodare più di tanto il diritto o la scienza politica. Sono perciò cinque pezzi facili.
“Con la legge elettorale che approveremo, i cittadini sapranno chi li governerà il giorno dopo le elezioni”.
Non esiste nessuna Enciclopedia di Scienze Sociali e nessun Dizionario di Politica (meno che mai quello che ho avuto il privilegio di curare insieme a Bobbio e Matteucci, nel quale la voce “Governabilità” è stata scritta da me), che associ la governabilità di un sistema politico, meglio, di una democrazia, al premio di maggioranza, ad un’aggiunta di seggi regalati al partito più grande.
Mentre drappelli di squadristi cerebrolesi devastavano Milano, sul palco dell’Expo, di fronte alle autorità della Nazione Unita, bambini angioletto chiosavano con «siam pronti alla vita» l’inno di Mameli. Se a un’auto in fiamme si contrappone lo zecchino d’oro, se a sfidare l’innocenza di un coro fanciullesco è l’immagine di una violenza senza senso, si capisce come l’Expo di Milano abbia vinto dieci a zero la partita mediatica del primo giorno.
1. I criteri di giudizio. Al di là di inevitabili compromessi su aspetti specifici, necessari per ottenere i consensi sufficienti in Parlamento, il combinato disposto tra legge elettorale e riforma costituzionale va valutato in relazione a due aspetti: si inserisce coerentemente o no nella trasformazione costituzionale vissuta nel Paese?