Divisi nell’adozione delle decisioni sulla ricollocazione e da un mancato accordo su una riforma ambiziosa del Sistema europeo comune di asilo, gli Stati dell’Unione hanno ritrovato coesione nel persuadere i Paesi terzi a trattenere e/o rimpatriare i propri cittadini e i migranti in transito nel loro territorio, inclusi i richiedenti asilo. Così, la cooperazione con gli Stati di origine e di transito ha assunto una dimensione strategica nella soluzione della cosiddetta «crisi dei migranti» dell’Unione europea e si prospetta come elemento stabile della governance dell’immigrazione nei prossimi anni.

Parallelamente, si è attivata anche l’Italia attraverso varie iniziative, sempre volte primariamente a contenere le partenze e, dunque, gli arrivi nel nostro territorio. Il 2 febbraio 2017 il presidente del Consiglio italiano ha firmato un memorandum d’intesa insieme ad Al Serraj per il Governo di Riconciliazione Nazionale, richiamando il Trattato di amicizia del 2008, all’epoca del quale l’immigrazione era già centrale nelle relazioni diplomatiche italo-libiche. È in questo contesto che subentra l’azione prorompente, anche sul piano mediatico, del ministro dell’Interno Marco Minniti, che intensifica la cooperazione già in atto, avviando intese direttamente con quattordici «municipalità locali» o «tribù», nonché con gli altri governi africani rilevanti. Una conferma della sempre maggiore presenza del ministero dell’Interno nella sfera estera, come dimostrano i vari accordi siglati negli ultimi anni direttamente dal capo della polizia, non pubblicati e senza alcun intervento del Parlamento.

Altrettanto vigore è stato impresso alle azioni già in corso per il sostegno alla Guardia costiera libica, alle quali si è aggiunta dall’agosto 2017 una vera e propria missione militare italiana che opera in sinergia con le missioni militari dell’Unione europea già presenti nel Mediterraneo.

La Libia ha così stabilito successivamente una propria area di ricerca e soccorso in mare, divenendo il principale attore delle operazioni in una vasta zona che si estende ben oltre le dodici miglia marittime del mare territoriale. Ciò al fine di evitare il soccorso da parte di altre navi incluse quelle delle organizzazioni umanitarie. A queste ultime, infatti, il governo italiano ha prima richiesto l’accettazione del noto «Codice di condotta», un atto dalla dubbia natura giuridica che ha dettato misure operative per regolare e limitare le attività delle navi umanitarie, soffiando sul fuoco di una disinformata campagna volta a delegittimarne l’operato. Poi la Guardia costiera libica ha impedito alle navi umanitarie non solo di accedere al mare territoriale ma anche all’area di ricerca e soccorso come stabilita dalla Libia. Peraltro, la limitazione delle attività delle organizzazioni umanitarie ha anche ridotto drasticamente le informazioni reperibili su quanto sta accadendo non solo in quel lembo di mare ma anche nella terra ferma.

La strategia perseguita emerge chiaramente dalla risposta del ministro dell’Interno italiano al commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa nella lettera inviata il 28 settembre 2017. Il sostegno finanziario e logistico al governo di Al Serraj è volto a far sì che siano le navi libiche a intercettare, salvare e riportare a terra i migranti soccorsi, così evitando quel «contatto» con le navi italiane che potrebbe determinare l’applicazione degli obblighi e, dunque, una responsabilità sul piano interno e internazionale del nostro governo. E questo perché la Libia è pacificamente considerata un «porto insicuro» per le persone ivi rimpatriate.

Consapevoli delle condizioni disumane presenti in Libia e negli altri Paesi rilevanti, il contenimento dei flussi è inserito in una più complessa strategia volta, da una parte, a migliorare le condizioni di trattenimento nei centri di detenzione, anche in collaborazione con l’Unhcr e l’Oim e, dall’altra, a investire in progetti di sviluppo e commerciali per migliorare le condizioni economiche e sociali dei Paesi di emigrazione e riconvertire le economie in larga parte basate sul traffico e sulla tratta di persone. Iniziative benemerite che, tuttavia, si pongono su un piano del tutto diverso rispetto a quello del contenimento dei flussi e non possono essere in alcun modo considerate come una sua «compensazione».

Mentre il contenimento dei flussi è una misura di breve periodo ed è l’unica che sta già producendo risultati tangibili, il sostegno per il miglioramento dei centri di detenzione è, nel migliore degli scenari possibili, una misura di medio periodo. Ciò se ci fossero le condizioni effettive di un miglioramento, se i centri facessero tutti capo al governo di Al Serraj e non invece a diverse milizie di fatto incontrollabili.

Lo stesso vale anche per gli investimenti e la cooperazione allo sviluppo, che possono produrre effetti positivi, certo, ma tendenzialmente nel lungo periodo, addirittura determinando, in una prima fase, un aumento dell’emigrazione. Inoltre, la variegata veste formale data alle intese con i Paesi terzi e al loro sostegno economico rende sempre più complicato distinguere i fondi destinati specificamente alla cooperazione allo sviluppo da quelli utilizzati per il contenimento dei flussi, con una preoccupante deviazione dei primi a favore dei secondi.

In altre parole, non è possibile sostenere che la cooperazione allo sviluppo e il miglioramento delle condizioni dei centri di detenzione siano misure compensatorie del blocco delle persone migranti, siano esse in Libia o in qualsiasi altro Paese. Il contenimento dei flussi costringe oggi centinaia di migliaia di persone, tra le quali molti bambini, in condizione disumane. Queste persone recluse nei centri di detenzione hanno bisogno di soccorso e di essere ammesse con un canale umanitario in Europa o in qualunque Stato del mondo disposto ad accoglierle.

Aprire canali umanitari non significa lasciare gli spietati trafficanti di esseri umani liberi di agire. Significa intensificare e rendere credibile l’azione dell’Unione e della comunità internazionale per il reinsediamento. Qualche timido segnale in questo senso sembra emergere, con la Francia che ha annunciato l’avvio di un programma di reinsediamento per 10.000 persone nel 2018 e l’Unione che ha rinnovato il proprio programma di reinsediamento con l’obiettivo di accogliere 50.000 persone nel prossimo biennio, una parte delle quali proprio dalla Libia. Numeri tuttavia irrisori rispetto alle persone bisognose di protezione che si trovano in Libia, tra sfollati interni, di rientro e stranieri.

È anche urgente almeno avviare una seria riflessione sulla riapertura dei canali d’ingresso regolari, soprattutto quelli per motivi familiari, resi eccessivamente difficili in gran parte dei Paesi dell’Unione europea e quelli per motivi economici, anche per persone non altamente qualificate.

Tra l’apertura incondizionata e la chiusura di ogni canale di ingresso, ad eccezione di quello irregolare, esiste un ventaglio di opzioni che devono essere attivate, subito, contemporaneamente all’azione di contenimento dei flussi, per salvare oggi chi non può aspettare domani.

 

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