Il secondo tempo dell’Obamacare. “Tutta l’infuocata retorica sulla riforma alla fine si confronterà con i suoi effetti reali”, dichiarò con ottimismo Obama il 23 marzo 2010, firmando la riforma sanitaria. Al contrario, sul "New York Times", il politologo dell’Università del Michigan Brendan Nyhan osservò profeticamente che i miti legati alla legge non sarebbero scomparsi facilmente dalla scena politica americana (soprattutto perché la gran parte delle sue conseguenze non si dispiegherà fino al 2014): “l’accesso alle cure mediche potrebbe aumentare, ma la piaga della disinformazione non sarà curata in breve tempo”. In particolare, secondo Nyhan l’Obamacare era destinata ad occupare un ruolo di primo piano nelle elezioni di midterm. Effettivamente, la mitologia politica risvegliata dalla riforma sanitaria di Obama – quella che ha puntato il dito (e talvolta anche il bersaglio..) contro il governo totalitario, socialista, che tassa, ridistribuisce la ricchezza, spende troppo e manda in bancarotta lo Stato – ha avuto un’importanza centrale nella nascita del Tea Party e nella rivolta conservatrice che, lo scorso 2 novembre, ha consegnato al Partito Repubblicano il controllo della Camera dei Rappresentanti e assottigliato la maggioranza democratica al Senato. Tanto che, il 19 gennaio scorso, la prima legge licenziata dalla nuova maggioranza è stata la revoca della riforma sanitaria (il Repealing the Job-Killing Health Care Act): un atto destinato a non avere conseguenze immediate, dato che al Senato non ha possibilità di passare, ma dotato di grande valore simbolico.

I repubblicani hanno infatti annunciato l’intenzione di ostacolare l’attuazione della riforma, soprattutto stringendo i cordoni della borsa (la Camera ha alcune competenze esclusive in materia fiscale). Come sottolineano i leader repubblicani, la revoca risponde a un preciso impegno assunto con l’elettorato, che in effetti sembra approvare questa iniziativa: secondo i dati diffusi da Rasmussen Reports a fine gennaio, il 58% degli americani è favorevole alla revoca, mentre i contrari sono il 38%; nel complesso, il 75% degli intervistati vorrebbe che la legge fosse modificata. D’altra parte, i democratici e la Casa Bianca hanno colto l’occasione per promuovere i punti della riforma già entrati in vigore: ad esempio, la norma che consente ai giovani fino ai 26 anni di essere tutelati dalla polizza sanitaria dei genitori, il divieto per le assicurazioni di negare la copertura ai minori con condizioni-preesistenti, l’obbligo di inserire gratuitamente nelle polizze private i servizi preventivi e diagnostici, gli incentivi fiscali per la copertura dei dipendenti delle piccole imprese o il contributo agli anziani per l’acquisto dei farmaci da prescrizione. In generale, i progressisti hanno sottolineato la distanza tra la piattaforma repubblicana e i bisogni delle classi sociali più esposte alla crisi economica, che più beneficiano della riforma. I democratici hanno evidenziato anche che, secondo il Congressional Budget Office, la cancellazione della riforma sanitaria costerà alle casse federali 230 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni; con la riforma, infatti, l’aumento delle entrate e i risparmi supererebbero gli incrementi di spesa, riducendo quindi il deficit federale di 143 miliardi in un decennio. La revoca, dunque, sarebbe in contraddizione con l’obiettivo programmatico dei conservatori di riequilibrare il bilancio federale.

Negli ultimi mesi, Obama non ha dovuto fronteggiare solo le iniziative parlamentari repubblicane, ma anche le azioni giudiziarie avviate in vari Stati da governatori e gruppi conservatori. Due di queste – una in Virginia, nel dicembre scorso, e l’altra in Florida, il 31 gennaio – hanno portato ad una dichiarazione di incostituzionalità per una clausola fondamentale della riforma: l’obbligo, per gli individui non assicurati, di acquistare una polizza sanitaria. Le sentenze, in attesa che si pronuncino le rispettive Corti d’Appello, non dovrebbero interrompere il processo di implementazione della legge, ed è altamente probabile che sulla questione arrivi a pronunciarsi la Corte Suprema. Per ora, comunque, Obama non intende recedere: il 25 gennaio, nel discorso sullo Stato dell’Unione, si è dimostrato disponibile a discutere proposte di miglioramento della legge, ma ne ha difeso l’impianto centrale: “anziché combattere nuovamente le battaglie degli ultimi due anni, facciamo in modo di correggere ciò che non funziona, e andiamo avanti”. La riforma è salva, almeno per ora.