Coming out a stelle e strisce. Negli Stati Uniti, tra luglio e settembre, i diritti delle persone gay e lesbiche hanno fatto tre passi avanti e uno indietro: con tre successive sentenze, le Corti federali hanno dichiarato l’incostituzionalità di altrettante leggi, considerate discriminatorie dal movimento gay e lesbico:il Defense of Marriage Act (DOMA), la legge firmata da Clinton nel 1996 con la quale il governo federale riconosce esclusivamente il matrimonio nella sua variante eterosessuale, escludendo quindi le unioni gay e lesbiche dalle prestazioni sociali federali; il Don’t Ask Don’t Tell, la norma, anch’essa introdotta da Clinton nel 1993, che vieta alle persone omosessuali dichiarate di arruolarsi nelle forze armate; infine, la Proposition 8, l’emendamento alla costituzione della California approvato per via referendaria nel novembre 2008 che, definendo il matrimonio come l’unione tra un uomo e una donna, bandisce la celebrazione delle nozze gay e lesbiche nello Stato (autorizzata da un’altra sentenza nel maggio 2008). D’altra parte, il Senato ha respinto la revoca del Don’t Ask Don’t Tell, che era stata invece votata a larga maggioranza dalla Camera, nel maggio scorso. Le tre decisioni giudiziarie hanno un’efficacia limitata territorialmente, essendo valide solo negli Stati che rientrano nella giurisdizione delle Corti; nel caso della California, inoltre, gli effetti della sentenza sono stati sospesi, in attesa della decisione della Corte d’Appello; occorre infine ricordare che è altamente probabile che sui tre casi arrivi a pronunciarsi, in ultima istanza, la Corte Suprema. Non si può quindi conoscere l’esito finale dei recenti progressi giudiziari, che intanto sono valsi l’accusa di “attivismo politico” rivolta dai gruppi conservatori ai giudici.

Le tre sentenze sono state accolte con entusiasmo dal movimento gay e lesbico americano: negli ultimi anni, da quando la Corte Suprema, con la sentenza Lawrence v. Texas del 2003, ha depenalizzato l’omosessualità negli ultimi 13 Stati, il diritto al matrimonio e quello all’accesso nelle forze armate sono stati messi al centro della piattaforma delle associazioni LGBT. La possibilità di arruolarsi e quella di contrarre matrimonio sono viste infatti come conquiste ad alto valore simbolico, capaci di trasmettere il senso di un riconoscimento sociale, oltre che concrete risposte ad una situazione discriminatoria. La doppia valenza delle decisioni sembra condivisa da Vaughn R. Walker, autore della sentenza californiana: secondo il giudice, la Proposition 8 rappresenta una violazione del principio di uguaglianza e non è giustificata da alcun interesse statale legittimo. Non solo: la norma “mette lo stigma contro i gay e le lesbiche davanti alla forza della legge”, legittimando l’idea che “le relazioni gay e lesbiche non meritino il pieno riconoscimento da parte della società”. La sentenza Lawrence v. Texas del 2003 ha rappresentato il momento di svolta nella storia dell’orientamento delle corti federali rispetto ai diritti delle persone gay e lesbiche. Nella sua opinione dissenziente, il giudice conservatore Antonin Scalia pronosticò che, erodendo la base morale degli argomenti contrari all’omosessualità, la decisione della Corte Suprema avrebbe lasciato le leggi che proibivano il matrimonio gay e lesbico “su un terreno traballante”. “I giudici federali non sono più convinti che una condanna morale dell’omosessualità giustifichi la discriminazione da parte del governo”, ha osservato Erwing Chemerinsky, preside della Facoltà di legge dell’Università della California, Irvine.

Al dinamismo delle Corti si contrappone la resistenza del Senato, dove il 21 settembre il progetto di legge che finanziava il bilancio del Pentagono, per la prima volta dopo 48 anni consecutivi, è andato incontro all’ostruzionismo (filibustering) della minoranza. Nel testo del provvedimento, infatti, era inclusa anche la revoca del Don’t Ask Don’t Tell, osteggiata dall’intero gruppo repubblicano. L’ostruzionismo della minoranza è stato guidato da John McCain, membro anziano della Commissione Difesa e sfidante di Obama alle presidenziali del 2008. Contro la revoca del Don’t Ask Don’t Tell hanno votato anche le senatrici del Maine, Susan Collins e Olympia Snowe, fino a pochi mesi fa, come McCain, considerate repubblicane moderate. Non è chiaro se i repubblicani non vogliano semplicemente concedere una vittoria ai democratici alla vigilia delle elezioni di mid-term, o se invece il partito si stia spostando a destra per effetto delle pressioni del Tea Party, come hanno ipotizzato il New York Times e The Nation.