Mentre nello Stato di New York ci si prepara a uno scontro che può risultare decisivo, in campo repubblicano ci si interroga sui fattori che hanno determinato l’ascesa e i successi di Donald Trump, un candidato considerato dai più all’inizio delle primarie un elemento folcloristico, con pochissime chance di ricevere l’investitura.

Indipendentemente dalla nomination, Trump ha fatto emergere una frattura che era latente da tempo tra l’elettorato repubblicano. Da una parte ci sono l’establishment e le classi medio-alte: sono pro-business (e per questo favorevoli all’immigrazione e al libero scambio), liberisti, anti-tasse, anti-Welfare e internazionalisti (ed eventualmente intervenzionisti in politica estera). Dall’altra ci sono le classi medio-basse (prevalentemente bianche), che hanno visto i loro redditi stagnare o declinare negli ultimi anni e che considerano questi sviluppi come la conseguenza della globalizzazione e dei trattati commerciali stipulati negli ultimi trent’anni dalle amministrazioni in carica (indipendentemente dal loro colore), nonché della concorrenza (sleale, perché favorite da programmi governativi) delle minoranze (afroamericani, ispanici, asiatici) e degli immigrati illegali. Per questa parte della base repubblicana, la spina dorsale del programma dell’establishment (una nuova massiccia riduzione delle imposte da finanziare in parte attraverso un’altrettanto massiccia riduzione dei programmi di Welfare) non è né importante né centrale. Questa parte dell’elettorato vuole piuttosto una più forte protezione contro la concorrenza “straniera”; e per questo è nativista, nazionalista, anti-immigrazione e opposta al libero scambio.

Ciò che è mancato nel periodo post-reaganiano a questa parte dell’elettorato è stato un imprenditore politico in grado di concretizzare questo malessere diffuso. Tuttavia, a partire dal 2010, con l’ascesa del Tea Party e la conseguente radicalizzazione del Great Old Party (Gop), gli equilibri all’interno del partito sono cambiati e si è creato lo spazio per l’ascesa di un tale imprenditore. È interessante notare come, in campo repubblicano, l’imprenditore politico abbia finito per coincidere con l’imprenditore tout court, il che è lungi dall’essere un handicap. Anzi, Donald Trump in parte deriva la propria credibilità proprio dall’essere un "traditore" della propria classe sociale e per questo capace di formulare proposte che quest’ultima (in particolare la componente più abbiente) aborre: protezionismo, mantenimento di una parte del sistema di Welfare ereditato dai Democratici, condanna dell’uso spregiudicato dei paradisi fiscali da parte dei miliardari e delle multinazionali. Queste posizioni non fanno tuttavia di Trump un candidato centrista. Al contrario, la proposta di costruire un muro col Messico, l’impegno preso di espellere undici milioni di immigrati clandestini, le sue posizioni nativiste, la recente posizione favorevole alla punizione le donne che abortiscono pongono indiscutibilmente Donald Trump nel campo della destra populista.

Dal questa veloce analisi l’ascesa di Donald Trump sembrerebbe essere principalmente un fenomeno endogeno al partito repubblicano. Tuttavia, una spiegazione alternativa è stata avanzata recentemente sul «Washington Post» da Ed Rogers, secondo la quale Obamanomics sarebbe la causa principale del successo di Donald Trump: “penso che la Grande Recessione, insieme alla debole crescita degli ultimi otto anni, ha fatto di più nel creare Donald Trump che qualsiasi altra cosa fatta dalla leadership repubblicana […] Se avessimo avuto una crescita del 4% negli ultimi quattro-cinque anni, Donald Trump non esisterebbe. Alcuni sostengono che un 2% di crescita non è poi cosi male per un’economia come quella statunitense. Ma con una crescita del 2% non è detto che tutti ne beneficino. Per esempio, sotto Obama, penso che il 2% sia andato al settore finanziario […] Se l’economia Americana non comincia a crescere di più, il peggio deve ancora venire”.

Dunque, secondo Rogers – ma molti repubblicani la pensano come lui – la colpa dell’ascesa di Trump sarebbe quasi interamente da imputarsi a Obama e delle sue politiche economiche, che dopo la Grande Recessione non sarebbero riuscite a far crescere l’economia a un tasso del 4%-5%. Poco importa che gli effetti negativi sulla crescita delle crisi sistemiche continuino per anni dopo la fine di queste ultime, che Obama abbia evitato il ripetersi di una Grande Depressione, che se invece avesse adottato le ricette suggerite dai repubblicani (riduzioni d’imposta cum drastica austerità fiscale e taglio di spese per il Welfare e investimenti pubblici al fine di raggiungere rapidamente il pareggio di bilancio, opposizione alle politiche espansive della Federal Reserve in quanto “inflazioniste” ecc.), l’economia si troverebbe in una posizione ben peggiore e le diseguaglianze sarebbero molto maggiori.

Tuttavia, mai come in queste elezioni presidenziali, i candidati repubblicani (e i loro consiglieri) hanno gettato alle ortiche i manuali di economia, rimpiazzandoli con le ricette miracolose dettate dall’ideologia conservatrice. Ha cominciato Jeb Bush, con la presentazione nell’estate del 2015 di un programma economico basato su riduzioni d’imposta e deregolamentazione, che avrebbe dovuto raddoppiare la crescita annuale dell’economia statunitense, portandola dall’attuale 2% al 4% in media annua. Per noi europei, che sappiamo quanto tempo e fatica ci voglia per far crescere la crescita potenziale dello 0,1-0,2% attraverso difficili riforme strutturali, sono numeri completamente irrealisti. Inoltre, il non-partisan Congressional Budget Office stima l’attuale potenziale di crescita dell’economia americana attorno al 2% e molti economisti considerano che sia addirittura più basso. Infine, a causa dei trend demografici e del fatto che non ci sia al momento un’innovazione radicale come Internet negli anni Novanta in grado di produrre un balzo nel tasso di crescita della produttività, vi sono poche chance che nel medio periodo (diciamo nei prossimi due mandati presidenziali) il potenziale di crescita statunitense possa superare il 2,5%, anche in presenza di politiche economiche pro-growth.

Queste considerazioni hanno però poco peso sugli attuali candidati repubblicani, che sembrano invece disporre della formula magica per far raddoppiare la crescita. Anzi, più che raddoppiare. Si sa, Jeb Bush era un “low-energy candidate” (così lo definì Trump). Candidati più vigorosi hanno naturalmente tassi di crescita più elevati. Per esempio, l’attuale candidato dell’establishment, Ted Cruz, è convinto che l’economia possa crescere al 5% e di poter portare il bilancio in pareggio grazie a un programma che prevede tra le altre cose l’abolizione dell’imposta sul reddito e l’introduzione di una flat tax al 10%. Poco importa che chi ha fatto i calcoli dell’impatto delle sue proposte sia giunto alla conclusione che il programma in questione non solo produrrebbe un drammatico aumento delle diseguaglianze, ma porterebbe il debito pubblico al 131% del Pil nel 2026 (45 punti percentuali al di sopra delle proiezioni correnti). Inoltre ci vorrebbe una crescita media annuale del 9,1% per portare il bilancio in pareggio.

In un tale contesto, si può allora comprendere come le proposte economiche del candidato Trump (che a sua volta prospetta una crescita del 5-6%) appaiano altrettanto “credibili” di quelle dei suoi avversari in campo repubblicano. Per le sue proposte in campo fiscale, non essendo molto diverse da quelle degli altri candidati repubblicani, valgono gli stessi effetti magici. Ad essi si aggiungono i presunti benefici effetti del protezionismo e dell’espulsione degli immigrati clandestini, che, in questo nuovo universo economico, consentono di fare un po’ di redistribuzione (dal resto del mondo verso gli Stati Uniti) e di portare la crescita al 6% (e perché no, en passant, visto che la matematica non conta, eliminare completamente il debito pubblico statunitense in otto anni).

Per concludere, al contrario di quanto sostiene Rogers, la resistibile ascesa del candidato Trump non è dovuta alle politiche economiche di Obama, ma al fatto che il Partito repubblicano e il suo establishment hanno da tempo imboccato una via populista che in economia fa a pugni con la matematica e il buon senso. Un approccio che per diversi anni ha consentito al partito di tenere assieme strati sociali con interessi economici diversi. Ma prima o poi le contraddizioni sarebbero venute al pettine ed è quanto accaduto in queste primarie, con la spaccatura della coalizione conservatrice. Donald Trump ha certo portato il neo-populismo della destra americana in territori parzialmente estranei all’establishment repubblicano, ma chi ha creato il terreno fertile per il suo successo è stato quest’ultimo e non il presidente uscente.