Obama l'Afgano va alla guerra. Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato venerdì scorso la nuova strategia americana per l’Afghanistan. E la notizia è che la guerra riprende, più decisa e aggressiva di prima, con lo stanziamento (già autorizzato) di 17.000 truppe da combattimento a cui si aggiungeranno 4.000 militari impegnati nell’addestramento delle forze afgane.

Tenuto conto del contingente già sul campo, questo porta il totale americano ad oltre 60.000 uomini, a cui si devono aggiungere le forze NATO impegnate nella missione ISAF, ed ulteriori rinforzi europei ed alleati da valutarsi nelle prossime settimane. Questo rilancio dell’impegno militare in Afghanistan, tuttavia, non dovrebbe essere confuso con la prosecuzione tale quale, né tanto meno con un’escalation, della «global war on terror» che Bush dichiarò all’indomani dell’11 di Settembre e che definì poi la sua presidenza. Quell’orizzonte ideologico, oltre che strategico e militare, sembra, almeno per il momento, superato. Obama ha fatto un chiaro riferimento all’11 Settembre nel motivare le nuove scelte strategiche, ma ha evitato accuratamente di servirsi ancora quella formula. La differenza non è solo semantica.

Mentre la guerra globale al terrorismo non è mai stata intesa da Bush come un’operazione mirata contro taluni gruppi terroristici, Obama ha chiarito che l’obiettivo della nuova strategia è limitato e definito: sconfiggere i gruppi legati ad Al Qaeda

La guerra globale al terrorismo non è mai stata intesa da Bush come un’operazione mirata contro taluni gruppi terroristici. Essa è stata invece elevata a vero e proprio paradigma interpretativo del nuovo secolo. Questo paradigma si basava su una lettura manichea del sistema internazionale, raffigurato come diviso nettamente e irrimediabilmente in due: l’America e il «mondo libero» da una parte e i «terroristi» e i loro sostenitori dall’altra. La tradizionale preoccupazione americana di sconfiggere i «nemici della democrazia» si tradusse dunque in una gigantesca campagna militare di scala globale contro le reti terroristiche internazionali ma anche contro gli stati «protettori» o «sponsor». Questo ha portato non solo alla guerra contro l’Afghanistan dei Talebani, ma anche all’invasione dell’Iraq. Questo approccio ha dettato anche le modalità del rapporto tra Stati Uniti ed alleati, il «con noi o contro di noi», nonché la selezione delle priorità strategiche. Priorità tradizionali, quali quella di fermare le politiche «revisioniste» di taluni regimi autoritari e il sostegno ai processi di democratizzazione, sono state fuse forzatamente con la guerra al terrorismo e l’obiettivo di sradicare il terrorismo è stato associato all’esportazione, anche forzata, della democrazia.

Quella di Obama è invece una visione diversa. Egli ha chiarito che l’obiettivo della nuova strategia è limitato e definito: sconfiggere i gruppi legati ad Al Qaeda che trovano oggi rifugio principalmente nella zona di confine tra Afghanistan e Pakistan. Questo comporterà un forte «impegno civile» nella ricostruzione e ingenti aiuti economici per lo sviluppo di entrambi i paesi. Ma la strategia è stata presentata, e circoscritta, ad una di difesa. Lo scontro, anche duro, farà ora distinzione tra il network di Al Qaeda e gli «insorgenti», che la nuova strategia cercherà di comprendere nella loro complessità provando a separare, anche all’interno dei Talebani, coloro che intendono aiutare chi è pronto a colpire di nuovo l’America da chi invece cerca solo di riaffermare il proprio potere, o i propri valori. Come questa nuova strategia sarà concretamente portata avanti, resta da vedere, né tanto meno è scontato il successo. Ciò che è certo, tuttavia, è che l’approccio sta cambiando. La guerra continuerà, ma sarà circoscritta, limitata, e soprattutto non più condotta nei termini di una crociata contro il mondo non democratico. Il nemico da sconfiggere militarmente rimane Al Qaeda. Il resto sarà ora compito anche della politica. Non chiamatela più «guerra globale al terrorismo».