Descrivere come si vive all’interno dell’istituzione totale non è certo facile: come prudentemente si sottolinea in molte ricerche, il momento traumatico della collocazione in cella, le condizioni di vita in una promiscuità forzata, il tempo ripetitivo e infinitamente vuoto del carcere possono essere solo parzialmente restituiti al ricercatore dai racconti delle persone detenute. L’andirivieni dei passeggi e la frustrazione delle camminate in sezione, i rumori e gli odori del carcere trasmettono sensazioni molto intense ma passeggere ai visitatori pur sempre estemporanei di una realtà tanto distante. Il tentativo di avvicinarci al vissuto della detenzione ci spinge a rivolgerci all’esperienza di prima mano dei nostri testimoni, coinvolgendoli nei percorsi di ricerca, come abbiamo provato a fare nel testo curato da Elton Kalica e Simone Santorso Farsi la galera. Spazi e culture del penitenziario (Ombre corte, 2018). Spettatori di prassi strutturali e sistematiche di infantilizzazione e degradazione (non si dà pena, diceva Massimo Pavarini, senza degradazione di status), crediamo però di aver capito che pensare che la reclusione possa costituirsi soltanto della privazione della libertà sia semplicemente illusorio. Attraverso i nostri testimoni privilegiati riceviamo continuo riscontro delle ricadute dei processi di disculturazione studiati da Goffman: dalla difficoltà, appena usciti dal carcere, ad attraversare una strada o a ordinare in autonomia al bar, alle criticità relazionali e affettive che durano nel tempo. E ci siamo scoperti più volte sottoposti in prima persona ai processi di prigionizzazione descritti da Clemmer, quando abitudini e pratiche che consideravamo inizialmente ingiustificabili hanno cominciato pericolosamente a sembrarci normali.

Nonostante la pervasività e la trasversalità di questi aspetti, bisogna riconoscere che ragionare sul carcere oggi significa confrontarsi con un sistema molto articolato e complesso, sia dal punto di vista delle composizioni umane che lo abitano, sia da quello delle caratteristiche strutturali e dell’organizzazione interna agli istituti. Stiamo parlando di un sistema che conta attualmente più di 60.000 detenuti, circa 32.000 unità di personale di polizia penitenziaria e poco meno di un migliaio di funzionari giuridico-pedagogici (educatori) in servizio effettivo, distribuiti su 189 istituti operanti sul territorio nazionale. Al suo interno, alcune differenziazioni sono più o meno note: un carcere maschile è altro da un carcere femminile – ma meglio sarebbe dire una sezione, visto che salvo casi eccezionali le poche donne detenute (meno del 5%) abitano sezioni dedicate all’interno degli istituti maschili, con tutto ciò che questo comporta –; la vita nelle Case di reclusione è molto diversa da quella all’interno degli Istituti circondariali, caratterizzati da elevati tassi di turnover e una specifica carenza di risorse trattamentali.

A ciò si aggiunge un’ampia varietà sul piano delle caratteristiche architettoniche e logistiche degli edifici, con ricadute significative sulla destinazione degli spazi e sull’organizzazione della vita interna: a monasteri risalenti fino al XII secolo e palazzi storici situati nei centri cittadini si alternano carceri di massima sicurezza collocate nelle prime periferie urbane, carceri pensate in funzione rieducativa e carceri organizzate per il mero contenimento. Al loro interno, gli stili di governo e le pratiche penitenziarie possono cambiare significativamente: indipendentemente da qualsiasi definizione normativa, carceri risaputamente «dure» si oppongono a istituti «a vocazione trattamentale», direttori «illuminati» a polizie penitenziarie «vecchio stile», regolamenti flessibili a organizzazioni rigide.

La situazione è resa ulteriormente complessa dalla predisposizione di una serie di circuiti dedicati in modo esclusivo a detenuti sottoposti, a vario titolo, a condizioni particolari. Il regime «duro» del 41 bis a gennaio di quest’anno ospitava 748 detenuti distribuiti in 11 istituti, una cinquantina dei quali ulteriormente ristretti nelle cosiddette «aree riservate». I circuiti di Alta sicurezza raccolgono circa 9.000 persone, a loro volta distribuite in tre differenti circuiti a seconda della condanna. Ci sono reparti dedicati ai collaboratori di giustizia (più di 500, alcuni con i propri congiunti). A queste differenziazioni si sono andati affiancando negli anni circuiti definiti in base alle esigenze specifiche delle persone detenute e alle declinazioni del controllo: istituti a custodia attenuata per persone dipendenti da sostanze (Icatt), sezioni esclusive per detenute madri con figli minori (una cinquantina con altrettanti figli al seguito ristrette nei cinque Icam sul territorio nazionale), e poi aree per le persone transgender, spazi dedicati ai sex offenders, piani riservati ai soggetti sotto osservazione psichiatrica…

 

[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 6/19, pp. 965-972, è acquistabile qui