Una storia del costume operaio è ancora da scrivere, ma possiamo senz’altro affermare che in questi centocinquant’anni l’industria ha inventato il vestito da lavoro, e che lo sviluppo del Paese lo ha diffuso ovunque. Ma nel 1861, quando l’Italia diventa unita, questa trasformazione è appena iniziata.E prima? Prima, e per quasi tutto l’Ottocento, c’è ben poca differenza fra come ci si veste per recarsi al lavoro e che cosa si indossa durante le ore di lavoro. Il grosso dei lavoratori usa gli stessi panni per stagioni intere, cercando di non consumare quelli della domenica. Ciò vale tanto più se il luogo di lavoro è un fabbricato non troppo grande, né lontano da casa: levata la giacca l’operaio è bell’e pronto, mentre all’operaia basta un grembiule. Fonditori, fucinatori, calderai, soffiatori, carpentieri proteggono gli indumenti da lavoro con grembiuloni, berrettacci, stivali o zoccoli, a cui non sempre provvede il padrone. Nelle miniere ci si veste molto oppure ci si spoglia quasi, come capita a «carusi» e adulti delle zolfare siciliane. Lo documentano sia la pittura a vario titolo «verista» o «realista», sia le rare fotografie d’officina scattate in quell’epoca: fra i maschi domina l’accoppiata calzoni-maglia (o maglione), e fra le femmine quella grembiule-abito (o sottoveste). Beate quelle che, come le «sartine», lavoravano duramente e lungamente, ma senza sporcarsi: nel senso comune è infatti inteso che i lavori buoni non richiedono indumenti speciali… Già quarant’anni dopo, il dipinto Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo metteva a fuoco un prototipo di soggetto proletario accomunato dall’abbigliamento assai più che dalla prole. Infatti era ormai iniziato quel che chiamo «il secolo del Lavoro» − maiuscolo, prego − e quel corteo evocava ormai un immaginario sociale in cui è arduo discernere dove lavorano coloro che sfilano. (Il bello è che comunque non sono propriamente abbigliati per il lavoro: quello è semmai il loro vestito da festa. Dopo altri settant’anni, nel film Metello, tratto dall’omonimo romanzo di Vasco Pratolini, i proletari vestiranno panni da muratore.)

[…] Il conflitto che fra il 1915 e il 1918 scuote l’Europa accelera il cambiamento, anche perché tutto il sistema produttivo è teso al massimo. Vengono alfine liquidati sia la salopette, che sotto la pettorina richiede comunque una camicia, sia l’insieme formato da giacca e calzone, grigi oppure blu. E si privilegia la tuta, generalmente blu, che diventerà una divisa di massa della «classe operaia» europea, la quale conosce ancora poco il jeans americano. È l’inizio di un’altra epoca: da allora gli operai prendono a cambiarsi il vestito, e non di rado le scarpe, prima di cominciare il lavoro e dopo aver lasciato custoditi gli effetti personali. Luogo d’incontro e momento di socializzazione, lo spogliatoio è importante anche perché, a quel punto, il vestito da lavoro ha ottenuto una dignità alla pari con quello da festa. Così, in questo spazio cameratesco, si filtrano e si uniformano vari aspetti dell’individualità connessi all’abbigliamento, e si incrociano gusti e abitudini, redditi e personalità.

L’uso dello spogliatoio realizza un disciplinamento simbolico attraverso indumenti che ricordano le metafore militari. E ciò tanto più con l’avvento del regime fascista che − come in tutte le dittature − dà fiato e procura simboli a una livellante mistica del lavoro. Non bisogna tuttavia pensare che dentro la fabbrica venga livellato tutto quanto: c’è anzi una gerarchia sociale scandita proprio dagli abiti da lavoro, che il fascismo semmai accentua. Su quei vestiti, infatti, va esibito il proprio numero d’ordine, cucito direttamente oppure inciso su una «medaglia» da non dimenticare mai. Questo contrassegno, così come il vestito, ha un colore diverso a seconda del rango. Nella grande fabbrica metalmeccanica, gli operai sono in tuta blu, le operaie in grembiule nero, impiegati e progettisti in camice grigio, le impiegate in grembiule nero e collo bianco ricamato, i collaudatori in camice blu, i capi in calzoni blu e giacca grigia, i dirigenti d’officina in giacca e calzoni neri, i sorveglianti in tuta o in divisa ma sempre con cappello e visiera. I manager si distinguono perché non indossano il vestito da lavoro.

[…] La distinzione sociale fra vestito da lavoro e vestito da festa assume un elevato valore simbolico quando saranno proprio le «tute blu» a spiccare nelle nuove forme di lotta, che gli operai inaugurano uscendo dalla fabbrica e manifestando per le vie delle città, con l’abito del lavoro esibito come una divisa. Vengono così esaltate una unità e una solidarietà di classe con un’enfasi che ricorda il luminoso precedente del Quarto Stato.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 5/11, pp. 804-809, è acquistabile qui]