Le primarie in Indiana si sono rivelate più importanti del previsto. In campo repubblicano, la schiacciante vittoria di Donald Trump ha spinto Ted Cruz e John Kasich a ritirarsi. Di conseguenza, non c’è più nessuno in grado di negare la nomination a Trump alla convenzione repubblicana di Cleveland. In parallelo, gli elettori democratici hanno deciso di farsi del male da soli, facendo arrivare in testa Sanders e relegando Clinton in un’inattesa seconda posizione. Questo risultato non muta l’esito finale delle primarie democratiche: né in termini di voti né in termini di delegati Bernie può battere Hillary (per non parlare poi dei superdelegati). Tuttavia, perdere contro un concorrente già battuto è un duro colpo all’immagine della frontrunner e un inaspettato regalo allo sfidante repubblicano.

Prima dei risultati dell’Indiana, lo scenario più atteso di qui alle convenzioni prevedeva che Clinton si sarebbe trovata in una posizione di vantaggio rispetto a Trump. Nonostante la partita con Sanders non fosse completamente chiusa, Hillary aveva già cominciato a unificare il partito democratico e i sostenitori di Bernie dietro di sé. Pur non potendosi esimere dal fare alcune concessioni significative a quest’ultimo, non avrebbe dovuto cambiare sostanzialmente il proprio programma e avrebbe goduto margini di manovra relativamente ampi nell’impostazione della campagna elettorale. Più importante ancora, avrebbe potuto da subito concentrare i propri attacchi su Donald Trump in particolare, sottolineandone incongruenze, rischi e pericoli. Last but not least, poiché a novembre si voterà non solo per il nuovo presidente, ma anche per il rinnovo della Camera e di un terzo del Senato, Clinton avrebbe potuto apportare già a questo stadio della competizione elettorale il proprio appoggio politico e finanziario ai candidati democratici al fine di riconquistare la maggioranza al Senato e, se le cose fossero andate veramente bene, anche quella alla Camera. 

Trump invece avrebbe dovuto continuare a concentrare i suoi sforzi, risorse ed energie nella lotta interna al partito repubblicano. Certo, non avrebbe mancato di attaccare pesantemente Hillary, ma la priorità sarebbe restata quella di assicurarsi i delegati necessari per ottenere la nomina. Di conseguenza, avrebbe dovuto continuare a puntare sui cavalli di battaglia che lo hanno reso popolare tra gli elettori repubblicani (il muro col Messico, l’espulsione degli immigrati clandestini, la riapertura dei trattati commerciali con Paesi terzi), ma che gli hanno alienato le minoranze e la grande industria. Inoltre, per non dare spazio al suo rivale più pericoloso, il super-conservatore Ted Cruz, non avrebbe potuto correggere il tiro su questioni come l’aborto, proprio quando, in assenza di un sostegno significativo da parte delle minoranze, avrebbe un bisogno impellente di aumentare il proprio appeal tra l’elettorato femminile. Infine, The Donald avrebbe avuto a che fare con un partito repubblicano profondamente diviso, se non allo sbando. Infatti non si vede come l’attuale leadership repubblicana, da lui accusata di aver distorto le primarie per farlo perdere, sarebbe potuta restare al suo posto dopo la convenzione di Cleveland.

In questo scenario, Hillary Clinton avrebbe avuto due mesi di tempo per rafforzare ulteriormente il proprio vantaggio a livello nazionale, mentre Donald Trump avrebbe dovuto battersi fino in California per ottenere i fatidici 1.237 delegati necessari per la nomina. Non a caso, nei giorni precedenti alle primarie in Indiana, la candidata democratica aveva cominciato a riorientare la propria strategia elettorale recandosi in Ohio, uno Stato in cui le primarie hanno già avuto luogo, ma che sarà un banco di prova decisivo nel determinare chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti.     

Tuttavia, dopo le primarie in Indiana lo scenario centrale è stato completamente stravolto. Certo, il partito repubblicano resta allo sbando e molti leader storici (tra cui i Bush) hanno già annunciato che non parteciperanno alla convenzione, segnalando così che non si riconoscono nella deriva populista e per certi aspetti reazionaria che ha caratterizzato le primarie repubblicane. Inoltre, le primarie per selezionare i candidati repubblicani per il Congresso rischiano di trasformarsi in un “tutti contro tutti”, in cui membri dell’establishment, sostenitori del tea-party, orfani di Ted Cruz, repubblicani moderati e neofiti del trumpismo daranno vita a coalizioni a geometria variabile a seconda degli Stati e delle personalità, innalzando ulteriormente la già elevata cacofonia che caratterizza il campo repubblicano a questo stadio del ciclo elettorale. Tuttavia, dopo l’Indiana, Trump non deve più preoccuparsi di cosa accadrà alla convenzione repubblicana e può concentrarsi interamente sullo scontro con Clinton.

Hillary invece dovrà continuare a battersi per non rafforzare l’immagine di perdente che Trump le appiopperebbe se dovesse continuare a venire sconfitta da Bernie (e da questo punto di vista le prospettive sono tutt’altro che rosee, visto che le prossime primarie si terranno in West Virginia, dove Sanders è in testa nei sondaggi). Inoltre, Bernie probabilmente chiederà che la convenzione democratica scelga tra i due candidati, rendendola una contested convention, sancendo così una spaccatura che Hillary vorrebbe evitare. Infine, quest’ultima non potrà dirottare una parte delle risorse finanziarie di cui dispone per sostenere i candidati democratici alla Camera e al Senato poiché dovrà impegnarle nella battaglia contro Sanders, riducendo così le chance di una riconquista democratica del Senato e - ancor più - della Camera dei rappresentanti.

Il crepuscolo delle primarie, che solo due giorni fa si annunciava clintoniano, è ora trumpista. Questo non significa che Hillary sia diventata l’underdog nella corsa alla presidenza. Infatti, nei sondaggi dispone ancora di un consistente vantaggio e la leadership del partito democratico è molto più unita dietro di lei di quanto non lo sia la leadership del partito repubblicano dietro Trump. Tuttavia, l’occasione che si era presentata per Hillary di chiudere la partita anzitempo sembra essere completamente sfumata e, dopo l’Indiana, la competizione con The Donald si annuncia molto più serrata del previsto.