Rosso, un rosso vivo forse, certo un rosso come non si vedeva da tanto, è l’interno ovattato in cui va in scena Das Kapital Oratorio, dal Capitale di Karl Marx: una recitazione ininterrotta come di un libro sacro diretta dall’artista inglese Isaac Julien, che si è ispirato alla lettura continua del sacro Akhand Path dei Sikh. È la rossissima Arena il cuore pulsante della Biennale di quest’anno. Con grande spiegamento di moquette, infatti, la sala principale del Padiglione Centrale dei Giardini,comunemente utilizzata per esporre le opere più d’effetto, è stata trasformata in teatro: totalmente rivestita di rosso è diventata arena dove, oltre al Capitale rivisitato, va in scena molto altro senza soluzione di continuità, dai canti di lavoratori e schiavi in Staged, di Jason Moran, a performance concettuali come quella di Olaf Nicolai, ispirata alla composizione in due parti di Luigi Nono (Un volto, e del mare/ Non consumiamo Marx per voce e nastro magnetico).

Fortemente voluta dal direttore di questa 56ª edizione, il nigeriano, ma molto occidentale, Okwui Enwezor, e concepita dal premiato architetto ghanese-britannico David Adjaye, l’Arena è certo la più vistosa e ingombrante delle novità della Biennale 2015, materializzazione di quella “Vitalità: sulla durata epica” che Enwezor propone come uno dei filtri, o chiavi di accesso, all’intera manifestazione. La lettura del testo di Marx, secondo le intenzioni del curatore, vorrebbe riportare il mondo contemporaneo a una sorta di riflessione iniziale da cui tutto è partito, quasi a voler dire che forse molte declinazioni della modernità sono frutto di malintesi o addirittura di tradimenti.

“Oggi il mondo ci appare attraversato da gravi fratture e lacerazioni, da forti asimmetrie e da incertezze sulle prospettive. Nonostante i colossali progressi nelle conoscenze e nelle tecnologie, viviamo una sorta di age of anxiety”. Così Enwezor agli artisti di questa nuova età dell’ansia ha chiesto di esprimere un pensiero sul futuro: All The World’s Futures è il titolo ambizioso e in un certo senso anche fuorviante per chi s’incammina sul percorso dell’imponente mostra da lui costruita, che si irradia dall’Arena del Padiglione Centrale dei Giardini all’Arsenale (88 padiglioni nazionali, 136 artisti, dei quali 89 presenti per la prima volta, provenienti da 53 Paesi con ben 159 nuove produzioni). Pochi, però, gli strumenti per aiutare il visitatore a decifrare le opere volutamente non descritte: solo il nome dell’autore, il titolo dell’opera e l’anno di realizzazione. Una scelta forse un po’ troppo snob a fronte di una fitta rete di opere costruite invece come documenti da leggere con attenzione, assorbire, metabolizzare, opere narrative e narranti, lunghi video, interi film.

Non è una Biennale facile da affrontare, non solo per la dimensione performativa e mutante dell’Arena, ma anche per il tempo necessario per entrare di volta in volta nel senso delle cose. Il primo requisito, dunque, il vero lusso, è proprio il tempo: meditato e lento per affrontarla non superficialmente, per permettere l’infiltrazione del presente, la sedimentazione della memoria o per cogliere i segni impercettibili della vita che si attesta nonostante tutto, come il respiro degli alberi del francese Céleste Boursier-Mougenot o la musica del vetro della norvegese Camille Norment, fino al suggestivo nulla dell’austriaco Heimo Zobernig che offre al visitatore smarrito (e a quel punto del percorso probabilmente anche esausto) solo la spazio nudo del magnifico padiglione di Josef Hoffmann, per ritrovarsi nella purezza di linee e volumi misticamente rivisitati.

Enwezor ha evocato l'inner song – i moti dell'animo – per indicare la sensibilità degli artisti invitati a esprimersi incalzati dalle contraddittorie e spesso drammatiche forze esterne, ma di inner song si può parlare anche per l’esperienza riservata al visitatore attento, a quello che appunto si permette il lusso del tempo. Spiazzato al primo impatto dalla mortifera atmosfera di molte sale, annunciate fin dall’esterno del Padiglione Centrale dal livido titolo Blues Blood Bruise di Glenn Ligon e dalle bandiere nere di Oscar Murillo, capaci tra l’altro, complice il caldo, di sprigionare nell’attraversarle un odore acre di pece e fumo, il visitatore oltrepassa la Fine, magistralmente reiterata da Fabio Mauri sotto la cupola affrescata di Galileo Chini e i rantoli rosso sangue di un uomo che non riesce a parlare, un Boltanski d’annata pudicamente quasi nascosto, alla ricerca di un punto di fuga, di una via d’uscita. E la via d’uscita si scopre tutta interiore, una via capace di guardare alla durezza di questo tempo con un pur atipico senso del sacro, esteticamente sfuggente e formalmente quasi inesprimibile. Così la natura di Robert Smithson o le ceneri di Steve McQueen, ma anche il senso doloroso delle fotografie cancellate di Adrian Piper, che ossessivamente ricordano come nel bene e nel male Everything will be taken away. E, se qualcosa ritorna, sembra lo faccia meglio “senza parole” come in They come to us without a word al Padiglione degli Stati Uniti, dove un'inossidabile Joan Jonas tiene insieme con poetica maestria una memoria senza capo né coda, tra sovrapposizioni, dissolvenze e magiche simultaneità dall’effetto estatico, a tratti allucinogeno.

Se nel pensare l’Arena Enwezor materializzava il sogno di un rinnovato quanto utopico 1974, quando tutta la Biennale di Venezia si trasformò in un acceso convegno pubblico interdisciplinare e molto partecipato, dedicato al golpe cileno e alle “testimonianze contro il fascismo”, quello che si realizza in questa Biennale è forse politico, ma certo senza alcuna pretesa rivoluzionaria. Non è un’arena che si accende di scontri, dove scorre il rosso vivo del sangue di un pubblico che sente tutta la forza di essere massa intenzionata a contare, a cambiare, anzi a rivoluzionare. No, niente rivoluzioni, quest’arena è piuttosto un recinto, sacralizzato da riti diversi che ciascuno fruisce singolarmente, per lo più in silenzio, dove accadono cose che toccano più il mondo interiore che quello di una ormai irriconoscibile collettività, un’arena dove la sabbia che idealmente ne costituisce il fondo attutisce il rumore dei passi della storia e dove ancora si possono scrivere molte cose, sapendo bene, però, che le parole scritte sulla sabbia sfumano lentamente fino a diventare incomprensibili.