All’indomani delle elezioni che gli garantiscono la quarta supermaggioranza parlamentare consecutiva, il primo ministro e leader storico di Fidesz Viktor Orbán si conferma il dominatore assoluto e incontrastato della scena politica ungherese. Gli oltre tre milioni di voti, pari al 53% del consenso popolare in termini proporzionali, rappresentano il massimo storico ottenuto dal partito di governo Fidesz. L’opposizione, apparentemente compattatasi intorno all’indipendente Péter Márki-Zay, ha raccolto meno di due milioni di voti e strappato appena due seggi uninominali su 88 collegi situati di fuori della capitale Budapest e della sua bolla mediatica e culturale. Nessuno come Orbán riesce, da oltre un decennio, a interpretare e piegare alle sue esigenze politiche sogni, bisogni, frustrazioni dell’elettore medio ungherese. Otto anni fa la carta vincente era stata la lotta alle multinazionali, con la riduzione delle tariffe energetiche; quattro anni fa la battaglia ideologica contro il magnate George Soros, le élite liberali europee e i migranti; nell’aprile 2022 Orbán ha compattato non solo il proprio zoccolo duro ma anche settori dell’elettorato passivo e impolitico attorno alla parola d’ordine della «pace».

Nei primi giorni dell’aggressione militare della Federazione russa all’Ucraina, Orbán e il suo governo sembravano arroccati sulla difensiva a causa degli ottimi rapporti bilaterali con la Russia di Putin. I due leader si erano incontrati a Mosca per un vertice bilaterale durato oltre sei ore il 1º febbraio 2022 per discutere ufficialmente delle forniture russe di gas all’Ungheria. L’inusuale durata dell’incontro privato ha fatto tuttavia sorgere il sospetto che Orbán sia stato informato dell’imminente invasione russa. C’è chi si spinge oltre: Putin avrebbe lasciato in sospeso con il suo ospite il futuro status della regione ucraina della Transcarpazia, abitata al 10% da ungheresi e appartenuta al regno d’Ungheria prima del 1918 e nuovamente dal 1939 al 1944. In ogni caso, la postura offensiva russa ha convinto Orbán a schierare il suo Paese su una linea di neutralità assoluta non priva di toni anti-ucraini a causa dei continui screzi con Kyiv, a partire dal 2014, sui diritti linguistici della comunità ungherese. Mentre l’opposizione chiedeva al governo di allinearsi alla Nato nel sostegno militare a Kyiv, Orbán e i suoi iniziavano, soprattutto nelle campagne e fra i ceti più sfavoriti, una campagna bouche à l'oreille mirata a screditare l’opposizione guerrafondaia e a presentare il primo ministro come unico possibile garante della pace e della stabilità economica. Il risultato del voto ha quindi premiato la linea governativa a sostegno della pace. Di una pace «russa», o quantomeno gradita a Mosca.

Mentre l’opposizione chiedeva il sostegno militare a Kyiv, Orbán iniziava una campagna elettorale e si presentava come unico garante della pace e della stabilità economica

Sul piano interno il sistema costruito da Orbán evidenzia stabilità e coesione, oltre a una capacità di resilienza e flessibilità dialettica fuori dal comune, più problematica appare la collocazione internazionale dell’Ungheria all’ombra non solo della guerra, ma anche dei recenti sviluppi politici europei. Il gruppo di Visegrad, dal 1991 un’alleanza flessibile e a geometria variabile, si è politicamente sgretolato in seguito allo scoppio del conflitto russo-ucraino. La Polonia e la Repubblica ceca hanno preso sin da subito una posizione inequivocabilmente favorevole a un intervento militare indiretto Nato in Ucraina mediante l’invio di armi e attrezzature logistico-militari a Kyiv. Il governo slovacco, non più guidato da Robert Fico e dal partito (nazional)socialista Smer, con cui Orbán aveva costruito dal 2010 in avanti un proficuo rapporto di collaborazione, si è sostanzialmente allineato alla posizione polacca nonostante la totale dipendenza energetica del Paese dalle fonti russe non agevoli la posizione di Bratislava. La rottura con la Polonia e con il partito di destra Pis, al governo dal 2015, è particolarmente dolorosa per Orbán in quanto negli ultimi anni i due governi sovranisti avevano giocato di sponda, aiutandosi reciprocamente nel rintuzzare gli attacchi di Bruxelles sul tema della Rule of Law e delle libertà civili. Il massiccio sostegno polacco all’Ucraina e ai milioni di profughi in fuga dal Paese ha informalmente restituito a Varsavia almeno parte della credibilità democratica persa negli ultimi anni.

All’improvviso, Budapest si è ritrovata più isolata che mai e non a opera di governi «ostili» (come quello austriaco o italiano durante la crisi migratoria del 2015) ma per mano di un governo ideologicamente affine come quello polacco. Nel giudizio intorno all’aggressione russa, tuttavia, Varsavia non conosce compromessi nè accetta esitazioni. Contano, in questo radicalismo, non tanto le posizioni politiche dei singoli partiti quanto piuttosto una forte sensibilità collettiva polacca di fronte alla minaccia russa percepita come perpetua ed esistenziale per il futuro del Paese. Varsavia non ha voluto imitare il cammino di Budapest, dove Orbán è riuscito a depotenziare il sentimento storicamente antirusso della destra ungherese, trasformandolo anzi in pulsione antioccidentale (o antiucraina – nel discorso della vittoria, il 3 aprile, il primo ministro ha citato Volodymyr Zelens'kyj fra gli «avversari» sconfitti al fine di conservare il potere). Sebbene non si possano escludere rinnovate convergenze tattiche Budapest-Varsavia in chiave antifederalista, il conflitto russo-ucraino sembra aver evidenziato i limiti strategici del tentativo orbániano di collocare l’Ungheria a un ideale crocevia fra Est e Ovest. Il ricompattamento politico e valoriale di quello che Mosca chiama l’«Occidente collettivo» mette l’Ungheria di fronte alle contraddizioni di una politica estera in cui, come proclama orgogliosamente il ministro degli Esteri Péter Szijjártó, Budapest non coltiva amicizie stabili ma solo rapporti vantaggiosi con Paesi di diverso orientamento stratefico.

Orbán è riuscito a depotenziare il sentimento storicamente antirusso della destra ungherese, trasformandolo anzi in pulsione antioccidentale e antiucraina

Un altro motivo di preoccupazione giunge dalle recenti elezioni presidenziali francesi e parlamentari slovene, che consegnano un quadro geopolitico magmatico ma complessivamente sfavorevole alle spallate populiste. Marine Le Pen si è aggiudicata in una competizione democratica oltre il 40% dei suffragi espressi ma la «diga» repubblicana, seppur con qualche affanno e tra molti distinguo, ha nuovamente retto. In Slovenia, poi, il primo ministro e leader pluridecennale del partito di centro-destra Sds Janez Janša è stato battuto da un imprenditore prestato alla politica come capo di un nuovo movimento social-liberale. Il caso sloveno è particolarmente interessante in quanto negli ultimi anni la stampa di Lubiana aveva denunciato in modo particolareggiato la tutela politica ed economica che l’Ungheria di Orbán stava esercitando sulla Slovenia guidata dal sodale Janša. Banche amiche e fondazioni legate a Fidesz avevano finanziato Sds e acquisito organi radiotelevisivi sloveni da riorientare politicamente in favore del governo di Lubiana. Il massiccio investimento non ha tuttavia dato i frutti sperati, dimostrando che un sistema semiautoritario necessita, per radicarsi, non solo di un leader carismatico ma anche di una «cattura» degli apparati statali che nell’intera regione centro ed est-europea solo Orbán è stato in grado di realizzare nell’ultimo decennio trascorso al potere.

Il potere assoluto sul piano interno si associa dunque a un crescente isolamento internazionale. In questo momento, l’unico governo dell’area allineato sulle posizioni di Orbán si trova a Belgrado, dove il presidentissimo Aleksandar Vučić guida l’unico Paese europeo apertamente schierato con Mosca. Il cerchio geopolitico sembra chiudersi in una spirale dagli sviluppi potenzialmente pericolosi anche per un mago della sopravvivenza politica come Viktor Orbán.