Si discuterà probabilmente molto delle conclusioni della Conferenza sul Clima delle Nazioni Unite (Cop26) di Glasgow, con l’abituale contrapposizione fra ottimisti e pessimisti. Sicuramente, dal lato del successo sta quel minimo di multilateralismo rappresentato dal possibile accordo fra Stati Uniti e Cina, nuove misure di trasparenza nei dati relativi alle emissioni di ogni Paese, l’aver determinato una tempistica nella presentazione degli impegni nazionali – i cosiddetti national determined contribution –, gli accordi specifici (come quello sulla deforestazione), mentre dal lato del fallimento stanno l’impegno alla riduzione, ma non eliminazione, dell’uso del carbone, la resistenza dell’India, l’assenza di accordi sui finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo. Ma se si vuole considerare il futuro della politica del cambiamento climatico, la prospettiva dev’essere necessariamente più ampia.

La Cop è una conferenza di rappresentanti di Stati, che si riuniscono per proseguire dei negoziati regolati da trattati (a partire dalla Convenzione quadro del 1992, passando per Kyoto e Parigi). Si tratta insomma di una discussione fra parti contraenti, che ha una natura intrinsecamente contrattuale, per così dire. E le parti sono i governi di Stati sovrani, che debbono tenere conto dei processi democratici al loro interno. Questo spiega in gran parte le esitazioni, i passi indietro, le ritrosie. Impegni maggiori significano per alcuni Stati costi maggiori da imporre ai cittadini. Per altri, rappresentano misure impopolari da prendere, o temi non percepiti dagli elettori come urgenti. I movimenti per la giustizia climatica e le ragazze e i ragazzi dei Fridays for future sono parte della società civile, ma non corrispondono affatto alla maggioranza, né a una cospicua parte dei votanti – o a una parte rilevante di chi può determinare le sorti dei leader in Paesi non democratici come la Cina.

Si tratta di una discussione fra parti contraenti, che ha una natura intrinsecamente contrattuale, per così dire. E le parti sono i governi di Stati sovrani, che debbono tenere conto dei processi democratici al loro interno. Questo spiega in gran parte le esitazioni, i passi indietro, le ritrosie

Tutto questo spiega, ma non giustifica. La situazione in cui ci troviamo è drammatica e non c’è tempo. Anche il limite dei 1,5° C, ammesso che lo si rispettasse entro tempi definiti e non troppo lunghi, non basterebbe a evitare gli effetti disastrosi del cambiamento climatico che stanno già avvenendo, o che sono irreversibili. Il cambiamento climatico si rivela sempre più come un problema che sfida e rende al tempo stesso inadatta e necessaria la logica della negoziazione, con le sue basi democratiche. Da un lato, la via degli accordi fra Stati non si può abbandonare: il cambiamento climatico è un problema di azione collettiva, che si potrà risolvere solo cambiando il comportamento di milioni di persone. L’unica istituzione capace di produrre un simile cambiamento sono i governi, tramite legislazione e azione politica. Dall’altro lato, gli Stati hanno agende a breve termine, legate ai cicli elettorali e alle esigenze e gli interessi degli elettori presenti, almeno in democrazia, e a interessi di potere e negoziazioni fra gruppi, nei regimi non democratici o imperfettamente democratici. Quindi, non si può che passare per gli Stati, e per le negoziazioni fra Stati, ma farlo costringe a un ritmo troppo lento e ad azioni troppo poco incisive.

Una logica politica alternativa, che forse porterebbe a esiti migliori, ha contrassegnato un altro avvenimento di questi giorni. Alcuni giorni fa il Senato italiano ha approvato una riforma dell’art. 9 della Costituzione, quello che tutela il paesaggio. Nella nuova versione, all’articolo si aggiungerebbero le seguenti parole: la Repubblica «tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse dello Stato» e «la legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali». Se la riforma (che è ritornata al Parlamento) passerà, sarà modificato anche l’art. 41, stabilendo che l’iniziativa economica, pur libera, non debba danneggiare la salute e l’ambiente. Dal punto di vista del diritto non si tratta di una novità, dal momento che la tutela dell’ambiente è già presente in norme del diritto europeo (per esempio nella Carta dei diritti fondamentali), recepite dal diritto italiano, e che vari pronunciamenti della Corte costituzionale hanno stabilito un diritto a un ambiente salubre.

Ma porre la tutela dell’ambiente e degli animali e gli interessi delle generazioni future nella prima parte della Costituzione, quella che ospita i principi fondamentali (mai modificata dal 1948 a oggi) ha ovviamente un senso ed esiti ulteriori. Significa da un lato stabilire che c’è un valore – il valore dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi – che ha la stessa importanza di altri valori costituzionalmente protetti, come l’eguaglianza o il lavoro. Significa dall’altro fare entrare dentro la Costituzione i cittadini futuri, rendendo la loro voce già presente e sottraendo i loro interessi alla logica pura del gioco democratico. Le generazioni future non votano, ma la Costituzione stabilisce, in una parte di essa in cui si enunciano i principi fondamentali della Repubblica, che i cittadini futuri hanno interessi che i votanti di oggi non possono ledere. Scrivendo a James Madison nel 1789, Thomas Jefferson adombrava un principio di sovranità generazionale: siccome ogni generazione dev’essere indipendente dalla precedente (come ogni nazione dev’esserlo rispetto alle altre), non ci possono essere norme costituzionali eterne, che vincolino le generazioni future, i cittadini presenti non possono trasferire i loro debiti a quelli futuri, né spogliare il pianeta delle risorse che serviranno ai posteri per esercitare la loro sovranità. Eppure, proprio per garantire alle generazioni future le condizioni per essere sovrane può servire una norma costituzionale duratura, che inserisca la protezione degli interessi dei posteri fra i limiti dell’azione politica, fra i vincoli esterni del gioco democratico. La costituzionalizzazione dell’ambiente e degli interessi delle generazioni future è il contrario della logica negoziale adottata nella politica del cambiamento climatico: si tratta di portare fuori dal gioco degli interessi rappresentati nella discussione democratica alcuni valori e alcuni diritti, rendendoli inattaccabili – non negoziabili, appunto.

Per garantire alle generazioni future le condizioni per essere sovrane può servire una norma costituzionale duratura, che inserisca la protezione degli interessi dei posteri fra i limiti dell’azione politica, fra i vincoli esterni del gioco democratico

Naturalmente, non c’è un governo mondiale e non c’è una Costituzione del mondo. Quindi la via della costituzionalizzazione non è stata neanche provata nel caso del cambiamento climatico. Anche se si inserissero norme a tutela delle generazioni future, o che imponessero politiche di abbattimento delle emissioni, in documenti simil-costituzionali di diritto internazionale (ammesso che ce ne siano), forse nulla cambierebbe, in assenza della volontà degli Stati più potenti di sanzionare queste norme. Immaginiamo norme a difesa delle generazioni future con lo stesso status delle norme contro il genocidio o contro i crimini di guerra, immaginiamo pure un Tribunale penale internazionale a difesa dei posteri. Sarebbe comunque molto difficile pensare a nazioni che s’impegnano in operazioni di polizia internazionale per punire gli Stati che continuano a usare il carbone.

Ma che dire di una costituzionalizzazione interna, dal basso, per così dire? Si tratterebbe di una strategia per cui i riferimenti già presenti in parte del diritto internazionale – nelle varie norme che enunciano principi di sostenibilità o tutelano ecosistemi e specie – e in alcune Costituzioni diventerebbero un elemento presente in tutte le Costituzioni, o meglio in quelle delle liberal-democrazie. Immaginiamo una futura Cop in cui la maggior parte degli Stati che si considerano democratici – magari India compresa – abbiano nella loro Costituzione la tutela dell’ambiente e delle generazioni future. Potrebbero questi Paesi firmare accordi al ribasso, contraddicendo così i principi fondamentali della propria Costituzione? Essi si troverebbero di fronte a due vie: o ritirarsi dalle negoziazioni, condannando allo stallo il processo, e incassando l’enorme biasimo dell’opinione pubblica mondiale, oppure esercitare una fortissima pressione sui Paesi riluttanti. Per anni, l’Unione europea ha cercato di esportare certi valori nella sua cosiddetta azione esterna (pur tra luci e ombre e inevitabili ipocrisie). Se fra questi valori ci fossero, per l’Unione Europea e per altre nazioni liberal-democratiche, la tutela dei posteri e del loro ambiente, forse i compromessi al ribasso diventerebbero meno facili. Le ragazze e i ragazzi dei Fridays for Future dovrebbero rivendicare riforme costituzionali, e non solo un generico maggiore impegno dei politici.