È tema antico e spesso riservato alle discussioni accademiche, ma ora torna prepotentemente d’attualità ed entra a gamba tesa nel varo (eventuale) del governo Monti.

Un governo tecnico è frutto della brutalità di avidi finanzieri e delle scelte dei tecnocrati comunitari? Sì, secondo una vulgata trasversale che va da Magdi Cristiano Allam sul "Giornale" (dove si parla addirittura di “assassinio della democrazia”) a Paolo Ferrero su "Liberazione".

Oppure è un governo che finalmente sancisce la dissoluzione senza nobiltà del “berlusconismo” (Guido Crainz su "la Repubblica"), che una democrazia semi-narcotizzata non è riuscita da sola a scalzare? Un governo che ha i presupposti per riconciliare con le istituzioni una società - così la descriveva un anno fa  il rapporto Censis - sfiduciata e senza più legge e desiderio?

La sfida è improba e l’esito non affatto certo, tuttavia per adesso la domanda è: se non ci fossero stati i feroci banchieri e gli investitori americani che a luglio hanno cominciato a liberarsi dei bond italiani innescando l’onda sismica, e se la puntigliosa e inusuale lettera della Banca centrale non avesse messo con le spalle al muro chi bellamente continuava a dire che tutto era sotto controllo, saremmo finiti nel baratro, al posto di fermarci un attimo prima?

Da tempo chi studia la finanza che corre velocemente e spensieratamente da una parte all’altra del globo (e infatti anche sul piano lessicale si utilizza sempre una espressione nel contempo minacciosa e misteriosa come “i mercati”) si chiede come questa si possa conciliare con le giurisdizioni domestiche, e come disegnare un'architettura di organi sovranazionali in grado di regolarla e imporre comportamenti comuni.

Un'architettura di organi ormai consolidata ma che vive un evidente “deficit di democrazia”: in altre parole, nessuno li elegge e spesso la loro composizione rispecchia la legge dei più forti. Un solo esempio: i famosi criteri di Basilea III, quelli che impongono più alti livelli di capitalizzazione e corrono il rischio di ridurre i flussi di credito alle economie, sono penalizzanti per banche come le nostre, incentrate prevalentemente sull’attività retail, e che della crisi hanno oggettivamente meno colpe. 

Anche sul piano europeo si discute sulla convivenza tra una Banca centrale dotata della necessaria autonomia  e indipendenza e un potere politico frazionato in mille rivoli, che stenta a trovare omogeneità di indirizzi e coerenza di strategie.

Il paradosso di questa crisi è che solo grazie agli organi sovranazionali, con le loro regole, le  loro rigidità e anche la loro distanza dai principi “democratici”, saremo capaci di affrontare quelle riforme utili non solo per crescere, ma per divenire un Paese normale o, per dirla con le parole di Barbara Spinelli, per farci uscire da quel Truman Show che in questi anni ci ha imprigionato.

Dobbiamo, quindi, rassegnarci a vivere perennemente in seconda fila e prendere bacchettate che ci riportino sulla retta via?

Il miglior antidoto contro questa rassegnazione è proprio nella persona del presidente del Consiglio incaricato. Chi meglio di lui può coniugare l’azione di governo con il recupero di un meditato protagonismo sul terreno europeo, per costruire nuove e più democratiche istituzioni, definire politiche comuni e apparecchiare un tavolo dove anche l’Italia venga presa sul serio e sieda a pieno titolo tra i commensali che decidono?

Può essere una grande occasione.