Il Pnrr è davvero un semplice “progetto di efficientamento” dell’esistente, piuttosto che di cambiamento? Ed è vero che non affronta il nodo fondamentale del nostro “modello di sviluppo”, rendendolo “più centrato su ricerca e innovazione”? Questa interpretazione, suggerita da Gianfranco Viesti, non mi convince del tutto. I contenuti del Piano e la sua stessa articolazione ricordano piuttosto quelle che, nel dibattito internazionale, vengono definite come politiche d’innovazione “mission-oriented”. Cioè un insieme coordinato di misure e interventi regolativi concepiti per affrontare specifici obiettivi, relativi a grandi sfide sociali, in un lasso di tempo definito (cfr. The Design and Implementation of Mission-Oriented Innovation Policies, Oecd Publishing, in particolare pp. 15-20).

Mi pare invece del tutto condivisibile l’idea che un piano di questo genere non possa e non debba essere pensato come se fosse una questione puramente tecnica. Poiché ha una intrinseca valenza politica e potrà realizzare appieno tutte le sue straordinarie potenzialità solo se coinvolgerà di più gli attori sociali ed economici e se le forze politiche riprenderanno a svolgere una delle loro funzioni fondamentali: quella identificante.

Grazie al Pnrr e alle risorse che esso è in grado di mobilitare, l’Italia ha una chance non solo di rilanciare ma anche di modificare il suo modello di sviluppo

La tesi che intendo sostenere è che grazie al Pnrr e alle risorse che esso è in grado di mobilitare, l’Italia si trova di fronte a una vera e propria “giuntura critica”, che offre una chance non solo per rilanciare ma anche per modificare il suo modello di sviluppo. Questo almeno è ciò che pensavo fino all’esplosione della guerra in Ucraina, i cui effetti sullo scenario a medio e lungo termine sono in questo momento difficili da prevedere.

Semplificando molto, una giuntura critica rappresenta un periodo in cui si allentano i vincoli derivanti dal passato e si creano opportunità per scelte precedentemente inimmaginabili. Sono frangenti storici di relativa indeterminatezza strutturale, in cui l’imprenditorialità politica gioca un ruolo davvero cruciale nel dare un esito oppure un altro alle crisi in corso. Quella che propongo, ovviamente, è una ipotesi di lettura dello scenario (post)pandemico che getta luce sulle sue potenzialità, senza però dare per scontato che queste ultime si realizzeranno. A maggior ragione oggi, vista la drammatica imprevedibilità del quadro politico internazionale. Ho già illustrato questa ipotesi in forma coincisa su queste pagine (Tutto merito di Draghi?) e in maniera più estesa in un articolo che verrà pubblicato a breve su “Stato e Mercato” (Game Changing Crises for the Innovation System, n. 1/2022). Non la riprenderò perciò qui in dettaglio, se non per sottolineare due punti che mi sembrano cruciali.

Punto primo. Il Pnrr non deve essere letto e interpretato in una sorta di “splendido isolamento”, come se non ci fosse un prima e un dopo del piano. Per quanto riguarda il prima, la mia idea è che il dispiegarsi a breve distanza di due crisi – la grande recessione del 2008-13 e la pandemia del 2020-22 – abbia favorito l’apertura di una finestra di opportunità per l’Italia e più in particolare per il suo sistema nazionale di innovazione. Alla vigilia della grande recessione il nostro Paese possedeva una struttura produttiva fragile che l’ha resa particolarmente vulnerabile alla crisi internazionale. In confronto alle maggiori economie dell’Europa nord-occidentale, l’Italia aveva seguito per molti anni una via bassa alla competitività, puntando principalmente sulla compressione dei costi e la precarizzazione del mercato del lavoro. Per questo gli effetti della grande recessione e delle politiche di austerità hanno avuto un impatto così devastante. Una crisi così drammatica ha però innescato anche delle “dinamiche generative” e un (parziale) ripensamento delle strategie competitive seguite negli anni precedenti. Questi aggiustamenti in parte sono il frutto delle scelte fatte dagli imprenditori, che hanno iniziato a investire di più nell’innovazione, in parte sono legate ad alcune politiche che li hanno agevolati. Molti indicatori mostrano che negli anni tra le due crisi si è così verificato un upgrading del nostro sistema nazionale di innovazione, testimoniato dalla scalata di posizioni avvenuta nell’European Innovation Scoreboard. In sintesi, i cambiamenti innescati dalla grande recessione hanno rappresentato degli “antecedenti critici” che, grazie alla mobilitazione di risorse europee, inducono a ritenere che l’Italia si trovi oggi di fronte alla possibilità di un cambio di rotta.

Punto secondo. Politics matters. La politica conta per le politiche e grazie a esse. Gli effetti del Pnrr saranno in larga parte determinati da come verranno scritte le misure di implementazione e di accompagnamento. Certamente questa è anche una questione tecnica, legata all’efficienza e alle competenze presenti nella nostra pubblica amministrazione. Ma è anche e forse di più una questione politica, legata alle scelte che verranno effettuate sulla governance e sulle valenze (normative) delle varie missioni. Le analisi effettuate sulle politiche “mission-oriented”, infatti, mettono in evidenza che le finalità e i risultati che si intendono perseguire con questi piani raramente sono già interamente definiti all'inizio. Piuttosto sono il risultato di un processo molto graduale e inclusivo, attraverso il quale la portata e la connotazione degli obiettivi viene progressivamente precisata e chiarita. I risultati del Pnrr, perciò, dipenderanno in primo luogo dalla capacità di coinvolgere gli attori collettivi, regionali e locali, pubblici e privati, nell’adattamento degli obiettivi generali alle specificità territoriali. In secondo luogo, discenderanno dalle scelte politico-normative effettuate al momento della definizione operativa delle varie missioni.

I risultati del Pnrr dipenderanno innanzitutto dalla capacità di coinvolgere gli attori collettivi, regionali e locali, pubblici e privati, nell’adattamento degli obiettivi generali alle specificità territoriali

Per spiegarmi meglio, uso come esempio una delle sfide affrontate dal Pnrr, quella della digitalizzazione produttiva. Questa missione avrà successo se verrà evitata la scorciatoia economicistica di chi ritiene che, per rilanciare la competitività, basti: a) incentivare l’innovazione tecnologica delle imprese e b) lasciare alle forze di mercato la guida dell’ammodernamento produttivo. Questa illusione tecnologia e mercatista trascura il fatto che gli effetti della transizione tecnologica in corso dipenderanno moltissimo dalla formazione e dall’aggiornamento delle competenze digitali dei lavoratori e della società. Un tema, questo, su cui il nostro Paese è drammaticamente indietro. Così come trascura il fatto che l’efficacia delle politiche nazionali varate negli ultimi anni per sostenere gli investimenti delle imprese è dipesa enormemente dall'azione svolta dai sistemi regionali d’innovazione.

In altre parole, queste letture economicistiche dimenticano che la digitalizzazione dell’apparato produttivo è frutto di una complessa costruzione politico-sociale. In questa fase di rapido sviluppo tecnologico, il mercato, lasciato a se stesso, crea dinamiche selettive fortemente dualizzanti e di “winners take the most” che rischiano di ridurre in maniera eccessiva la base produttiva dell’economia italiana. Laddove, invece, un’adeguata politica industriale – basata su servizi avanzati e beni collettivi – potrebbe aiutare molte piccole e medie imprese ad affrontare una transizione tecnologica e organizzativa utile non solo alla competitività economica ma anche alla coesione sociale. È su questo terreno che una politica volta a sostenere la crescita può assumere anche tratti d’inclusione.

Infine, non si può trascurare il fatto che non si possa e non si debba pretendere da un piano scritto in pochi mesi ciò che invece deve fare la politica. Qui è inevitabile richiamare la lezione di un grande sociologo italiano, Alessandro Pizzorno, laddove ci ricorda che la funzione primaria dell’attività politica è quella identificante. La politica serve cioè a costituire identità collettive che permettano ai gruppi sociali di definire i propri interessi fondamentali, calcolando i costi e i benefici delle politiche non solo nel breve periodo. Senza queste identificazioni collettive, basate sul riconoscimento intersoggettivo dei valori, che consentono calcoli di utilità orientati al lungo periodo, sono possibili solo due esiti: la frammentazione e la disgregazione connessa alla lotta degli interessi immediati, oppure quello che Pizzorno chiama un “governo amministrativo” (oggi lo definiremmo dei tecnici). Un governo in cui l’attività identificante ed efficiente della politica convergono a salvaguardare gli interessi a lungo termine dello stato e a contrastarne il declino nello scenario internazionale (A. Pizzorno, Sulla razionalità della scelta democratica, "Stato e Mercato", n. 7/1983, p. 34).

Questi esiti sono entrambi insoddisfacenti. La giuntura critica che l’Italia si trova oggi ad affrontare ha bisogno di imprenditori politico-istituzionali che sappiano aggregare una coalizione per lo sviluppo. Si tratta di una sfida formidabile che, a giudicare dalla qualità dell’attuale dibattito pubblico, sembra quasi impossibile. Ma di questo c’è bisogno per promuovere una modernizzazione infrastrutturale e una ripresa dello sviluppo economico che sia anche sostenibile sotto il profilo ambientale e sociale. Cioè che sia fondata non solamente sui “beni collettivi per la competitività”, ma anche su quelli per la cittadinanza.