Che succede, insomma? Dobbiamo sentirci italiani? Non dobbiamo sentirci italiani? Perché sono questi, in definitiva, gli interrogativi che la celebrazione del centocinquantesimo dell’Unità pone. Francamente penso che ci siano ottimi motivi per sentirsi parte di una comunità politica italiana. E penso anche che quegli ottimi motivi dovremmo andarli a cercare in prima istanza nella Costituzione della Repubblica, che è il patto fondativo che ci lega davvero. Lì, nella prima parte, nella sezione dei valori, così come nella seconda, quella relativa all’architettura costituzionale, possiamo trovare seri motivi di orgoglio, poiché si tratta di una Costituzione nel suo complesso molto bella, e tale da aver garantito le libertà di tutti (sottolineo: assolutamente tutti) dal 1948 a oggi.

Dopodiché è anche giusto che per un anno, e in occasione del 150o, si celebri la data del 17 marzo considerandola festa nazionale. Ma solo per un anno. Perché la Repubblica italiana le sue feste di fondazione le ha già, e sono il 25 luglio e il 2 giugno. Eventi molto belli da ricordare: la Liberazione, la Repubblica, l’elezione dell’Assemblea Costituente a suffragio universale sono evidentemente momenti importanti, carichi di una grande quantità di valori positivi: la fine di una dittatura; la fine di una guerra e di una minacciosa occupazione straniera; l’inizio di una lunga stagione di piena e larga libertà.E qui mi fermerei. Nel senso che non andrei oltre a cercare nel passato ragioni per sentirci parte di una comunità politica coesa. E ciò perché il recupero del Risorgimento o addirittura della storia precedente in funzione patriottica è possibile solo attraverso la costruzione di una rappresentazione mitica che semplifichi, purifichi e in definitiva distorca le vicende storiche che si considerano come fondative. Che appartengono a contesti culturali lontani. Immersi in culture politiche diverse. E in qualche caso anche impregnate di valori ideologici tossici.

Ma c’è un possibile patriottismo «buono»? Certo che c’è: è il patriottismo costituzionale. Che non è certamente un concetto banale, né di facile diffusione; ma non per questo è meno «buono». E «buono» lo è – fra le altre cose – perché invita a sentirsi parte di una comunità politica non perché si pensa di discendere da Scipione l’Africano o perché si pensa di avere nelle vene del «sangue italiano», ma perché ci si sente legati a un patto fondamentale che contiene i valori essenziali e le regole imprescindibili del gioco politico, che disciplinano la vita collettiva. Che questo patto sia stretto tra persone che hanno – come strumento di comunicazione fondamentale – la lingua italiana fa della comunità politica che lo sottoscrive una comunità italiana.

Torno dunque al mio punto iniziale: è nella Costituzione che possiamo trovare un modo giusto per sentirci italiani. Un modo ricco di valori positivi. Un modo accogliente nei confronti di chi venga da altri Paesi ma decida di vivere in Italia e di far parte di questa specifica comunità, secondo procedure e regole che governino con serietà i flussi migratori. Un modo, infine, che può tenerci al riparo dai pericoli di un possibile risorgere del nazional-patriottismo. Il che, naturalmente, comporta che la Costituzione sia conosciuta, rispettata e amata: e se questo obiettivo diventasse il principale della pedagogia pubblica dispiegata per il 150o, allora sì che potremmo dire di aver fatto un buon uso di questo anniversario.

 

 

[Questo testo anticipa l’articolo L’inno di Mameli e il buon patriottismo,in uscita sul numero 2/2011 del «Mulino» nella rubrica «se centocinquanta vi sembran pochi», dove viene ospitato anche il contributo di Vittorio Vidotto, Italiane e italiani.]