La scorsa settimana è stata segnata da un’esplosione di protesta che dalla Sicilia è risalita verso il Nord. Protagonisti indiscussi gli autotrasportatori, ma nell’Isola ad essi si sono affiancati altri lavoratori autonomi: agricoltori e pescatori che animano il "movimento dei forconi". Le principali rivendicazioni riguardano la riduzione del prezzo della benzina e del gasolio, esenzioni fiscali e rateizzazioni dei pagamenti richiesti dal fisco, protezione dei prodotti agricoli con misure più severe sulla tracciabilità e la contraffazione, modifica di regolamenti Ue sulla pesca ritenuti troppo penalizzanti. Al di là delle richieste specifiche, la cifra complessiva del movimento è contraddistinta dalla forte polemica nei riguardi dello Stato centrale, ritenuto il principale responsabile del disagio, e dall’altrettanto netta condanna della classe politica in tutte le sue articolazioni. Nelle manifestazioni si sono anche viste bandiere della Trinacria, ma l’impressione è che i riferimenti all’indipendentismo siano rimasti tutto sommato molto marginali rispetto agli slogan antistatalisti e antipolitici. Di fronte alla portata del fenomeno, che ha coinvolto per diversi giorni molte decine di migliaia di manifestanti - con conseguenze pesanti per l’economia e per la popolazione, specie in Sicilia - è difficile non chiedersi se stiamo assistendo al battesimo di un nuovo leghismo del Sud. Ma in questo caso di che leghismo si tratterebbe? In che misura potrebbe essere simile a quello sperimentato nel Nord?

Naturalmente, è ancora troppo presto per trarre delle conclusioni. Si possono solo proporre alcune ipotesi argomentate rispetto a un fenomeno che appare fluido e aperto anche a esiti diversi. Certamente ci sono i rischi che diversi commentatori hanno sottolineato. Gad Lerner li ha espressi chiaramente ("la Repubblica" del 25 gennaio) parlando di "gattopardi spelacchiati" e di un "disegno di contropotere finalizzato a strumentalizzare il disagio sociale" da parte delle vecchie classi dirigenti. Bisogna però tenere presente che il fenomeno ha assunto nei giorni scorsi una dimensione di massa da non sottovalutare, perché testimonia un disagio diffuso, molto forte e avvertito non solo in Sicilia, ma anche in altre parti del Sud (e più in generale  nel Paese). Si può supporre che la gran parte di coloro che hanno partecipato alla protesta siano spinti da un effettivo aggravamento delle condizioni di vita che gli ammortizzatori tradizionali legati alla spesa pubblica, all’economia sommersa e criminale non riescono più ad attutire come in passato. D’altra parte, anche i rischi di infiltrazioni mafiose devono per il momento essere presi in quanto tali. Sono reali e non vanno affatto sottovalutati, ma proprio il presidente di Confindustria Sicilia, Ivan Lo Bello, che per primo li ha portati coraggiosamente all’attenzione, ha anche precisato che per ora di tentativi di infiltrazione si può appunto parlare, ma non di un sostanziale pilotaggio da parte di Cosa Nostra.

Non diamo dunque per scontato un esito che è possibile, ma ancora non sicuro. Se è difficile intravedere un disegno preciso, una strategia preordinata a tavolino, certo ci sono però vari segni che la protesta possa finire per rafforzare alcune forze politiche che tentano la carta della rappresentanza territoriale in Sicilia e nel Mezzogiorno. Il leader di Grande Sud, Gianfranco Miccichè, distaccatosi dal Pdl, ha dichiarato che il nuovo movimento va "benedetto", mentre il presidente della Regione Sicilia Raffaele Lombardo, leader dell’Mpa, ha più volte espresso la consonanza della sua formazione con gli obiettivi del movimento e ha schierato la Regione a sostegno delle rivendicazioni, promuovendo un incontro con il presidente del Consiglio Monti. Per ora i leader del movimento di protesta prendono le distanze e dichiarano di non volersi legare a alcuna forza politica. E’ una tattica comprensibile per accrescere le capacità di mobilitazione giocate sull’antipolitica. Tuttavia, non solo i principali organizzatori hanno avuto precedenti esperienze di vario tipo nell’ambito del centrodestra siciliano, oggi deluso dal berlusconismo, ma soprattutto gli schemi di riferimento (i frames) utilizzati per la mobilitazione fanno ampio riferimento a quel rivendicazionismo verso lo Stato centrale che è tipico di una vecchia tradizione delle classi dirigenti siciliane e meridionali. Oggi  questo schema è ampiamente utilizzato dalle formazioni "autonomiste" prima ricordate e da altre che si intravedono in altre regioni meridionali. La riattivazione di questo vecchio arnese delle classi dirigenti meridionali – mai del tutto scomparso – sembra riflettere la difficoltà della classe politica meridionale nella situazione economica e finanziaria degli ultimi anni. Essa non riesce a svolgere più come in passato il ruolo di mediatrice di risorse pubbliche garantite dal centro per la costruzione del consenso elettorale. Da qui la necessità di un maggiore rivendicazionismo e di una forte contrapposizione alla Lega.

L’idea di fondo è che ci siano sempre dei torti dello Stato centrale per i quali è necessario ottenere riparazione con  privilegi, esenzioni, trattamenti speciali (tra cui crediti d’imposta e zone franche). Questo frame trascura però sistematicamente le responsabilità della classe politica locale e regionale nel creare o alimentare condizioni di contesto che aggravano il disagio economico e occupazionale per carenze di infrastrutture e servizi collettivi, ai quali si preferisce la distribuzione clientelare e assistenziale delle risorse pubbliche. Per restare alla Sicilia, si pensi che la spesa della Regione nell’ultimo trentennio è aumentata di circa otto volte, ma questo incremento è stato assorbito dalla spesa corrente, mentre quella in conto capitale, che include gli investimenti, è rimasta al palo. Per non  dire dei fondi europei, fermi a meno del 10% della spesa sul totale di circa 10 miliardi del ciclo 2007-13.

Per il momento, più che rispondere a un disegno, la protesta sembra riflettere il vuoto politico, il grave deficit di rappresentanza che investe particolarmente la Sicilia e il Mezzogiorno, e che riguarda anche il Pd: significativo il silenzio e la marginalità di questa formazione, dilaniata da forti contrasti interni, anche rispetto alla protesta e ai suoi sviluppi. E’ possibile dunque che questo vuoto di rappresentanza, in una situazione di fortissimo disagio economico e sociale, sia riempito da un nuovo leghismo meridionale. Ma se questo avverrà, si tratterà di un fenomeno diverso da quello del Nord: un antistatalismo per ottenere di più dallo Stato piuttosto che per non dare di più allo Stato. In ogni caso, ne deriverebbe un indebolimento politico del centro e quindi della capacità di definire e realizzare un disegno nazionale di sviluppo per tutto il Paese. In definitiva, la stessa unità nazionale sarebbe posta a più dura prova. Proprio per questo sarebbe bene che il meritorio tentativo dell’attuale governo di rimettere in carreggiata il Paese tenesse ancor più conto che per l’esito della partita è decisivo il Mezzogiorno.