Il Colonnello nel deserto. Le informazioni raccolte con difficoltà da chi si trova in queste ore a Tripoli descrivono una situazione esplosiva. L'ordine pubblico non è più assicurato. Gli scontri si moltiplicano. Armi sarebbero state distribuite a mercenari africani nelle strade. {C}Gli stranieri si rifugiano nelle proprie abitazioni e le ambasciate, in primis quella italiana, sembrano superate dagli eventi, in difficoltà nel gestire queste ore difficili. La pentola del regime gheddafiano sta per saltare in aria. E come in ogni "fin de règne", il collasso dell'antico regime si  realizza tra il  disorientamento e il disfacimento.

Riecheggia l'immagine della "Strana Disfatta" di cui parlava Marc Bloch: improvvisamente lo Stato si sfarina, decomponendosi in una molteplicità di iniziative senza coerenza. Di fronte a questa sfuggevolezza e precarietà, è difficile tenere fermo il quadro. Si possono però abbozzare con (molta) prudenza alcuni elementi di analisi. Innanzitutto, la crisi libica appare qualitativamente diversa da quella tunisina e egiziana.  In Egitto e Tunisia, il cambiamento politico è stato pilotato dall'esercito. In Libia, Gheddafi ha scelto di fare il vuoto attorno a sé, impedendo così l'istituzionalizzazione di qualsiasi corpo  statale. Il collasso di questi giorni conferma il carattere personale e patrimoniale del regime libico: accanto a Gheddafi c'è il deserto. L'idea che all'interno del regime potesse strutturarsi un'anima riformatrice attorno al figlio Seif Al Islam si è rivelata illusoria. Col suo minaccioso discorso del 20 febbraio e con la sua difesa a oltranza, "fino alla guerra civile", del padre, il "riformatore" Seif ha fugato qualsiasi ambiguità: colui che doveva incarnare l'anima riformatrice della Libia è oggi il guardiano del tempio in fiamme.

Nelle prossime ore si riuscirà a capire se all'interno del regime, e in particolare all'interno dei servizi di sicurezza interni, vi saranno personalità che avranno la forza per smarcarsi da Gheddafi e accompagnare il cambiamento politico. Al momento, questa ipotesi sembra difficilmente percorribile anche perché appare dubbio che i servizi di sicurezza potranno sopravvivere al collasso del regime. Attualmente solo due forze sociali sono dotate di capacità organizzativa e radicamento: le tribù (cabile) e  l'Islam nelle sue varie articolazioni. E saranno probabilmente queste a determinare gli equilibri futuri della Libia. Non è allora un caso se in queste ore la tribù Azaweya stia minacciando di sabotare i flussi petroliferi verso l'Europa, quasi a voler chiarire i nuovi rapporti di forza. E in Cirenaica, dove la rivolta è esplosa, negli ultimi decenni si è strutturato un contro-regime imperniato attorno a confraternite islamiche  che hanno sfruttato la clandestinità a cui erano costrette per sviluppare un misterioso misticismo dai contorni difficilmente decifrabili. La Cirenaica è infatti una regione imperscrutabile, una fra le aree culturalmente e logisticamente più isolate di tutto il Mediterraneo. Incapace di assicurarsene il controllo militare, il regime ha scelto negli ultimi anni di sigillare ermeticamente la regione, chiudendola a qualsiasi contatto con l'Occidente. Non siamo quindi di fronte a soggetti  rodati dalle logiche politiche e con una forte dimensione internazionale  come i Fratelli Musulmani  in Egitto ma piuttosto a una nebulosa di corpi sociali (cabile, confraternite, sette religiose) sconosciuti e coi quali bisognerà imparare a negoziare.

Il cambiamento in moto appare difficilmente arrestabile: o il regime gheddafiano si sfarina come neve al sole nelle prossime ore oppure si abbarbica in una resistenza a oltranza della Tripolitania, appoggiandosi sulle ultime sacche di resistenza all'interno dei servizi di sicurezza ed accompagnando cosi' la divisione del Paese. Altre ipotesi come la riforma costituzionale "last minute" promossa da Gheddafi Junior appaiono di dubbia fattibilità. La via dell'abbarbicamento, del "Muoia Sansone con tutti i Filistei" sarebbe la più pericolosa, non solo per la Libia ma anche per la Comunità internazionale, e in particolare per l'Italia. Roma infatti, per la sua vicinanza al regime, è nell'occhio del ciclone e  colpisce il fatto che il 17 febbraio, giorno in cui è scoppiata  la rivolta antigheddafiana di Bengasi, abbia coinciso esattamente con l'anniversario dell'attacco contro il consolato italiano della stessa città. Tuttavia, in queste ore, invece di continuare a domandarci cosa è preferibile per l'Italia, dovremmo forse chiederci cosa sia meglio per i libici.