Un sistema istituzionale è tale poiché le sue parti interagiscono e si condizionano in una varietà di modi. Anche quando le istituzioni sono «separate», come negli Stati Uniti, condividono i poteri e sono in competizione per acquisirne e per esercitarli. Nelle democrazie parlamentari, come quella italiana, le relazioni fra le istituzioni sono strette e complesse, flessibili ed elastiche, di grande interesse analitico e di notevole rilievo politico, passibili di cambiamenti significativi, portatori di opportunità e rischi. Per molte ragioni, buone e cattive, il sistema politico italiano si trova proprio alla soglia di cambiamenti degni della massima attenzione (e preoccupazione). A proposito della eventualità dell'elezione di Mario Draghi alla presidenza della Repubblica, alcune settimane fa, il ministro leghista Giancarlo Giorgetti evocava, non so se con timore o con favore, la comparsa di un semipresidenzialismo di fatto. Sappiamo che nel semipresidenzialismo de iure è il presidente che, quando dispone di una maggioranza parlamentare del suo colore politico, può nominare il primo ministro, producendo una grande concentrazione di potere nell’esecutivo. Altrimenti, quando la maggioranza nell’Assemblea nazionale è opposta al presidente, diventerà primo ministro il capo di quella maggioranza che, nella situazione nota come coabitazione, avrà tutto l’interesse a rimanere coesa per sventare qualsiasi tentazione del presidente di sciogliere il Parlamento. Da molti punti di vista, il semipresidenzialismo si rivela una forma di governo affascinante per gli analisti.

In Italia, non esiste nessun precedente di un capo di governo in carica che sia diventato presidente della Repubblica. Anzi, una condizione non scritta, ma finora sempre rispettata, è che presidente diventi qualcuno che è giunto al termine della sua vita politica attiva, inevitabilmente caratterizzata da divergenze, conflitti, scontri. Nel suo discorso di fine anno Mattarella ha fatto cenno a questo elemento, sostenendo la necessità per i presidenziabili di spogliarsi di ogni precedente appartenenza (politica e, aggiungo per i buoni intenditori, stando molto nel vago, «professionale»). Nella oramai più che sessantennale traiettoria del semipresidenzialismo della Quinta Repubblica francese, praticamente tutti i primi ministri si sono considerati presidenziabili e diversi fra loro si sono candidati alla presidenza. Molto curiosamente nessuno dei primi ministri in carica è mai stato eletto. Il gollista Chirac perse contro Mitterrand nel 1988 quando era primo ministro. Vinse nel 1995 quando, di proposito, non lo era più. Nel caso italiano quattro presidenti – (Segni 1962-64), Leone (1971-78), Cossiga (1985-1992), Ciampi (1999-2006) – avevano in precedenza ricoperto la carica di presidente del Consiglio, ma al momento dell’elezione al Quirinale ne erano oramai lontani temporalmente e, per così dire, politicamente. Purtroppo, per lui, invece, nel 1971 Aldo Moro venne osteggiato, in particolare da Ugo La Malfa, proprio per la sua vicinanza alla politica (e che politica!) attiva.

L’eventuale elezione di Draghi al Quirinale comporta più o meno inevitabilmente dei rischi per una democrazia come quella italiana che, non bisogna dimenticarlo, si regge su un sistema di partiti frammentato e non consolidato?

L’eventuale passaggio di Mario Draghi direttamente senza nessuna soluzione di continuità da Palazzo Chigi al Quirinale sarebbe, come detto, assolutamente senza precedenti e porrebbe non pochi interrogativi costituzionali (come opportunamente rilevato da Federico Furlan). Non so se avremo l’effettiva necessità di rispondervi e diffido di risposte arzigogolate. Ritengo preferibile, seguendo la strada aperta da Giorgetti, esplorare se, rebus sic stantibus (5 gennaio 2022), l’elezione di Draghi al Quirinale comporti più o meno inevitabilmente dei rischi per la democrazia italiana che, non bisogna dimenticarlo, si regge su un sistema di partiti frammentato e non consolidato.

Preliminarmente, mi pare che sussistano alcune variabili impossibili attualmente da mettere e tenere sotto controllo, in particolare da chi, partiti e persone, sarà proposta la candidatura di Draghi e da chi e quanti parlamentari verrà votata. Dopodiché il discorso è inevitabilmente destinato a partire dal momento in cui il Draghi diventato presidente della Repubblica dovrà necessariamente affidare l’incarico per la formazione del nuovo governo (art. 92: «Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri»). Fermo restando che è possibile, forse addirittura probabile, che qualcuno, Giorgia Meloni lo ha già fatto alcuni mesi fa, chiederà al neo-presidente Draghi lo scioglimento del Parlamento. Noto che sarebbe davvero uno scambio improprio e pericoloso quello fra i voti per l’elezione e lo scioglimento del Parlamento, ma ne esiste un precedente non glorioso: l’elezione di Giovanni Leone nel dicembre 1971 con i voti decisivi del Movimento sociale di Giorgio Almirante e lo scioglimento nel febbraio 1972 per elezioni anticipate come desiderato e richiesto dai neo-fascisti (che quasi raddoppiarono i loro seggi in Parlamento).

Facile immaginare le pressioni su Draghi; ma a questo punto qualsiasi ricognizione sugli eventuali rischi per la democrazia italiana deve spostare il tiro dove li vedono coloro che sono preoccupati da Draghi presidente della Repubblica. Certo, fare filtrare che Draghi avrebbe già un proprio candidato da nominare per la sua sostituzione a Palazzo Chigi nella persona dell’attuale ministro dell’Economia Daniele Franco conferma le perplessità e le contrarietà di coloro che vedono una pericolosa estensione dei poteri reali di Draghi, presidente della Repubblica e presidente del Consiglio per interposta persona. D’altronde, non si può dubitare che il ministro Franco condivida le linee di politica economica di Draghi e che le applicherebbe. È altresì lecito pensare che Franco, meno esperto e consapevolmente meno prestigioso di Draghi, sarà disponibile a seguire su tutte le altre, molte, materie dell’agenda di governo, le indicazioni che gli verranno da quella che pudicamente chiamerò la moral suasion del presidente della Repubblica. Tuttavia, nulla di quello che ho ipotizzato e scritto è insito in procedimenti rigidi, inevitabili, incontrovertibili. Al contrario.

Ma al gioco partecipa la democrazia parlamentare, troppo spesso ritenuta debole laddove la sua forza consiste nella flessibilità e nell’adattabilità

Qui entra in gioco la democrazia parlamentare, troppo spesso ritenuta debole laddove la sua forza consiste nella flessibilità e nell’adattabilità. Per sostituire il presidente del Consiglio andato al Quirinale, debbono/possono essere i partiti, che intendono sostenere la stessa coalizione di governo o formarne un’altra, a suggerire il nome del loro candidato alla carica di presidente del Consiglio. In via riservata possono anche fare sapere al presidente Draghi che non intendono accettare una nomina, per così dire, dinastica, preannunciando voto contrario al candidato eventualmente loro imposto. Saranno i partiti in entrambi i rami del Parlamento a votare o no la fiducia, sanzionando la loro subordinazione a Draghi oppure rivendicando il loro potere di scelta e infliggendogli una sconfitta tanto più grave poiché avviene all’inizio del mandato e, inevitabilmente, lo condizionerebbe ridimensionandone il prestigio anche agli occhi degli europei. Uno showdown Draghi/Parlamento sulla formazione del governo che vedesse vittoriosi i partiti non significherebbe in nessun modo l’assoggettamento totale e definitivo del presidente ai loro voleri e alle loro scelte. Il presidente della Repubblica continuerebbe ad avere il potere di autorizzare la presentazione dei disegni di legge di origine governativa e di promulgazione dei testi legislativi approvati dal Parlamento. Per rimanere nell’ambito della legislazione, toccherebbe ancora a lui dare il via libera o bloccare i decreti e la loro, spesso ingiustificata, proliferazione su materie per lo più eterogenee.

Con partiti forti e coesi, in una solida alleanza di governo, il presidente ha poca discrezionalità nel far valere le sue preferenze di politiche e di persone. Ma con partiti deboli e divisi?

Sulla scia di Giuliano Amato, ho più volte parlato di poteri presidenziali a fisarmonica. Con partiti forti e coesi, in una solida alleanza di governo, il presidente ha poca discrezionalità nel suonare la fisarmonica ovvero fare valere le sue preferenze di politiche e di persone. Partiti deboli e divisi, in un’alleanza conflittuale, aprono grandi spazi nei quali il presidente suonerà, con la sua personale competenza ed esperienza, la musica che preferisce. La flessibilità della democrazia parlamentare consente entrambi gli esiti con le molte modulazioni intermedie, evidenziando eventuali rischi per il funzionamento della democrazia. Per concludere, sento tuttavia di dover aggiungere che non è quasi mai una buona idea spingere le istituzioni e le relazioni inter-istituzionali ai loro limiti estremi.