Qualcosa si muove. Anche in Svizzera. Paese stabile per antonomasia, dotato di un’amministrazione efficiente e di funzionari zelanti, la Svizzera raramente attira la curiosità della stampa estera. Sarà perché non conosce crisi di governo, né improvvisi ribaltoni. La composizione dell’esecutivo centrale è cambiata nel corso dei decenni, ma il numero (sette consiglieri) è rimasto invariato dal 1848, l’anno della nascita del moderno Stato federale. Fin dagli anni Cinquanta del Novecento, i sette ministri collaborano grazie alla «formula magica» fondata sulla spartizione consociativa del potere tra i maggiori partiti presenti sulla scena, centrodestra/centrosinistra, con l’esclusione delle ali estreme (Konkordanzdemokratie). Inoltre, com’è noto, la Confederazione non ha mai accettato di aderire all’Ue, né di far parte dell’Eurozona. La politica monetaria è sempre rimasta nelle mani della Banca nazionale.

Negli ultimi anni, tuttavia, l’attenzione verso questa piccola federazione al centro del continente è cresciuta, focalizzandosi su tre ambiti di particolare interesse e delicatezza: il segreto bancario, la gestione dell’immigrazione, i rapporti con l’Ue. Nel primo caso, la pressione – alimentata soprattutto dagli Stati Uniti – è sfociata nell’abolizione del segreto bancario di cui beneficiava la clientela estera, nonché nell’introduzione dello scambio automatico di informazioni. Nel secondo caso, numerose iniziative – promosse dall’Unione democratica di Centro, Schweizerische Volkspartei, e dalla “sorella” locale, la Lega dei Ticinesi – hanno preso di mira lo straniero, sia come individuo (l’espulsione degli stranieri che delinquono), sia come collettività (il divieto di costruire minareti). Tali campagne, aggressive e tutte intente a ritrarre l’immigrato come un alieno, diverso e infido, hanno mietuto consensi soprattutto nei sobborghi delle città, nelle campagne e nelle vallate alpine, spaventate da un afflusso percepito come caotico e incontrollabile, in grado di alterare gli equilibri etnici, linguistici e religiosi delle comunità autoctone. Il terzo ambito ha riguardato la costruzione europea, giudicata antidemocratica, indifferente al destino dei piccoli popoli e delle minoranze, retta da una burocrazia eterodiretta dalle multinazionali, ligia al principio della libera circolazione della manodopera, fonte di sprechi e ruberie.

Tutto, alla vigilia del 20 ottobre – giorno di elezioni per il rinnovo delle Camere federali (Consiglio nazionale e Consiglio degli Stati) –, lasciava presagire una sostanziale tenuta del quadro politico, con la riconferma del blocco borghese capeggiato dall’Udc, la formazione che nell’ultimo ventennio ha dettato legge nel legislativo, trainata da un influente esponente dell’imprenditoria, il magnate Christoph Blocher. Questa volta però è intervenuto un elemento inatteso, almeno nelle sue dimensioni e ricadute: la mobilitazione mondiale sul cambiamento climatico, un allarme che ha scosso l’opinione pubblica, in particolare le giovani generazioni, in prima fila nei cortei e nelle manifestazioni. La figura di Greta Thunberg, la sedicenne attivista svedese, ha colpito per la determinazione di cui ha dato prova nei “Fridays for Future”.

La predicazione di Greta ha senz’altro giovato al movimento verde. L’elettorato l’ha premiato, portando il numero dei rappresentanti da 11 (2015) a 28 (2019); anche i Verdi liberali (la costola moderata dello schieramento) hanno incrementato i seggi (da 7 a 16); in calo invece tutti i partiti di governo, compresi i socialdemocratici, che hanno subìto una flessione del 2%, scendendo al 16,8%, la percentuale più bassa dal 1919 (per i risultati complessivi si rimanda al sito www.ch.ch). La partita comunque terminerà ufficialmente soltanto il 17 novembre, dopo che saranno noti i vincitori dei ballottaggi per la Camera alta (il Consiglio che rappresenta i cantoni, eletto con il sistema maggioritario).

La progressione del movimento verde va dunque inserita in questo rinnovato contesto internazionale, nella crescente ansia per le sorti del clima (dalle carestie ai roghi dell’Amazzonia) che per mesi ha tenuto banco nei media. Non va tuttavia dimenticato che i temi ambientalisti sono presenti nell’agenda politica da decenni, almeno dagli anni Sessanta in poi. Fu in quel torno d’anni che si iniziò a contestare il modello di sviluppo imperante, basato su progetti faraonici, dagli impianti idroelettrici nel cuore delle Alpi alla rete autostradale, e a cui seguirono le proteste per il nucleare: nel 1975 un fiume di militanti di ogni età occupò il terreno in cui sarebbe dovuta sorgere la centrale atomica di Kaiseraugst, alle porte di Basilea. Fu una marcia coronata dal successo. Nelle catastrofi successive – da Chernobyl a Fukushima – i Verdi videro confermate le loro previsioni più nere. Si trattava di incidenti che avvenivano anche non lontano dall’uscio di casa, come accadde nei depositi Sandoz di Schweizerhalle nel 1986.

I Verdi (che gli avversari amavano paragonare ad angurie: verdi fuori, rossi dentro) non riuscirono però mai a capitalizzare le loro denunce e i loro moniti in termini di voto. Considerati un partito monotematico, composto di militanti e simpatizzanti un po’ strambi, alternativi per comportamenti e scelte alimentari, i Grünen svizzeri rimasero ai margini, prigionieri di un’identità dal profilo incerto e in ogni caso allergica allo schema destra/sinistra.

Quest’anno questa gabbia è finalmente saltata. Merito di Greta (onda verde), merito dei votanti più giovani (più numerosi alle urne del solito), merito delle donne (onda rosa). Proprio l’elettorato femminile ha contribuito a rimescolare i rapporti di forza attraverso una mobilitazione che si è protratta per un anno. Tanto infatti è durata la preparazione dello “sciopero delle donne” che lo scorso 14 giugno ha riempito le piazze: un’iniziativa fondata sul rispetto e sulla parità salariale, che ha interloquito anche con le cerchie storicamente meno sensibili alle rivendicazioni sindacali e femministe.

La prossima legislatura ci dirà in quale misura questo (parziale) rinnovamento dell’emiciclo riorienterà la politica elvetica. Il centrodestra rimane maggioritario (114 seggi su 200), ma la sua compattezza appare meno granitica che nel passato quadriennio; negli spazi che inevitabilmente si apriranno i piccoli gruppi potranno infilarsi scompigliando le alleanze tradizionali. Anche la Svizzera cambia, ma, com’è suo costume, lo fa lentamente, senza strappi, e senza troppi clamori.