L’annuncio di Joe Biden che gli Stati Uniti supportano una sospensione dei brevetti sui vaccini ha destato molto scalpore. Il presidente Usa si è fatto interprete di un sentimento diffuso secondo il quale la situazione attuale – in cui la (sotto)produzione di vaccini che copre a stento, per ora, la sola domanda dei Paesi ricchi – possa essere risolta solo con interventi straordinari. Eppure, dicono i critici, un’azione del genere non solo non risolverebbe i problemi attuali, ma metterebbe a rischio la risposta futura ai mutamenti del virus e ad altre pandemie e, più in generale, la ricerca medica. Da una parte, infatti, si sostiene che la sospensione dei brevetti non avrebbe effetti immediati sull’offerta medicinale, data la mancanza di know-how di altri Paesi e compagnie per l’effettiva produzione; dall’altra, si aggiunge che colpire i profitti delle multinazionali farmaceutiche comporterebbe un precedente pericoloso, disincentivando per il futuro gli investimenti in ricerca, non più così solidamente garantiti dai diritti di proprietà intellettuali.

Le due obiezioni sono in contraddizione: se la sospensione non ha effetti pratici, non intaccherebbe i profitti. Oltretutto, sembrano sorvolare su diversi aspetti concreti della situazione attuale. In primo luogo, per quanto riguarda il trasferimento del know-how, i vaccini tradizionali come Astrazeneca e Johnson&Johnson sono già facilmente replicabili in stabilimenti terzi: il Serum Institute indiano già fornisce Az, il vaccino cinese verrà presto fabbricato in Egitto e una compagnia canadese ha già fatto richiesta – senza successo – di produrre Johnson&Johnson. La situazione è più complessa, invece, per i vaccini mRna, nonostante fabbriche ben attrezzate potrebbero essere in grado di iniziare la produzione nel giro di tre mesi. Secondo l’ex direttore chimico di Moderna, lo stesso Biden ha già dimostrato che, con pressioni politiche adeguate, minacce di interventi legislativi e concessioni di licenze per utilizzare brevetti pubblici, sia possibile forzare la collaborazione tra aziende rivali, riluttanti a lavorare insieme. Se è pur vero che non è chiaro di quanto possa essere espansa l’offerta e in quanto tempo, sembra comunque facile ipotizzare che la liberalizzazione incrementerebbe l’offerta esistente.

Non è chiaro di quanto possa essere espansa l’offerta e in quanto tempo, ma sembra facile ipotizzare che la liberalizzazione incrementerebbe l’offerta esistenteLa seconda critica è forse più consistente, poiché intreccia il sistema di incentivi nell’innovazione e nella produzione capitalista con una certa idea di società dove è il mercato, sempre e comunque, a soddisfare bisogni e necessità. Secondo tale visione un taglio ai profitti sarebbe dannoso per la ricerca: date le spese/investimenti che si incorrono per la creazione di nuovi prodotti, le compagnie necessitano di una protezione (i brevetti, i diritti di proprietà intellettuali) che garantisca che altri competitori non possano entrare nel mercato semplicemente copiando, senza l’esborso iniziale. In questo contesto va però considerato che durata e portata dei brevetti sono una scelta politica ed economica in cui diversi fattori entrano in gioco e in cui è necessario bilanciare il benessere sociale e il profitto/incentivo privato. Il brevetto, in molti casi, garantisce una posizione di monopolio e senza un freno pubblico ci possono essere innumerevoli abusi: si pensi al prezzo dell’insulina, che negli Stati Uniti costa tra le 8 e le 12 volte di più che negli altri Paesi anglosassoni, escludendo di fatto una vasta platea di malati/consumatori ed è proprio in questa dicotomia tra mercato e società che si incunea il problema di produzione e allocazione.

Nel caso specifico dei vaccini, inoltre, è bene chiarire che: a) nessuno ha proposto l’esproprio, quindi le compagnie farmaceutiche continuerebbero a incassare royalties anche se la produzione dei vaccini fosse effettuata da terzi; b) i profitti finora incassati dal Big Pharma rappresentano comunque una più che sostanziosa remunerazione dell’investimento effettuato; e infine c) come sottolineato tra gli altri da Massimo D’Antoni, l’allargamento e non la restrizione della platea di produttori potrebbe, in caso di necessità, aumentare le possibilità di innovazione secondaria e di correttivi per eventuali mutazioni del virus partendo dai vaccini esistenti.

Chi sostiene che è l’avidità del capitalismo a salvare il mondo, dimentica che la ricerca di base è soprattutto frutto di investimenti dello StatoChi poi sostiene, come Boris Johnson, che è l’avidità del capitalismo a salvare il mondo («greed is good»), sembra dimenticare, in realtà, il ruolo del pubblico nella ricerca. Le compagnie private hanno indubbiamente mobilitato ingenti risorse, ma è opportuno ricordare che: la ricerca di base, compresa quella nel campo mRna, è di fatto frutto degli investimenti dello Stato; gli organismi pubblici hanno largamente sovvenzionato i giganti farmaceutici – senza purtroppo richiedere in anticipo alcuna contropartita, come poteva essere appunto la sospensione dei brevetti; e infine anche il prodotto finale della ricerca (il vaccino) non pare essere poi così dipendente dagli investimenti privati, se è vero che non solo i vaccini russo e cinese sono stati creati da aziende di Stato, ma anche quello di Oxford, prodotto da un’università, è stato finanziato per oltre il 95% da capitale pubblico. È di particolare interesse proprio quest’ultimo caso, in quanto l’idea iniziale era proprio avere un vaccino patent-free, posizione cambiata in corso d’opera a causa dell’intervento di Bill Gates che ha voluto la partnership con Astrazeneca, che, se è vero che al momento vende il vaccino al prezzo di costo, avrà comunque la possibilità di innalzare il prezzo in una seconda fase. Allo stesso tempo, Pfizer ha recentemente reso noto di aver intenzione, in un futuro non troppo remoto, di alzare il prezzo dei suoi vaccini, seguendo quella logica di massimizzazione del profitto: razionale per un’azienda, meno per le sorti del mondo.

Il punto, forse, come sosteneva Vincenzo De Nicolò dalle pagine de «Il Foglio» è ripensare in toto un’industria in cui le grandi multinazionali estraggono di fatto un rent: tanto la ricerca quanto la valutazione e i controlli sono in mano pubblica, mentre il capitale privato entra in gioco soprattutto per i (costosi) test clinici e per la fase di commercializzazione. Ci troviamo dunque in una situazione in cui il bene in questione viene finanziato nel suo sviluppo e poi acquistato come prodotto finito dallo Stato (nei Paesi civili attraverso la sanità pubblica), con compagnie private che fanno da intermediarie tra queste due fasi, a caro prezzo: un trasferimento netto di risorse dal pubblico al privato, con gravi conseguenze per il Welfare collettivo. La pandemia e l’affaire vaccini potrebbero essere le buone occasioni per farsi domande di più larga portata – ed è forse per evitare questo pericolo che si è immediatamente scatenato questo fuoco di fila in difesa dei brevetti, costi quel che costi.