Le elezioni regionali in Liguria hanno goduto, si fa per dire, di un’attenzione mediatica spasmodica. Negli ultimi giorni prima del voto molti commentatori si erano spinti a presentare questa piccola e anziana regione, lontana da tutto nei trasporti, e da tempo marginale nella distribuzione della ricchezza e del potere nazionale, come l’ago della bilancia, una sorta di Ohio italiano. Non nel senso che un voto regionale avrebbe mai potuto incidere sulle sortidel governo nazionale, ma perché a seconda del risultato ligure questa tornata amministrativa, che ha pur sempre coinvolto ventitre milioni di italiani, sarebbe stata fatalmente letta come la definitiva affermazione di Matteo Renzi oppure come il primo serio inciampo per la sua fulminante ascesa politica. Il risultato, che ha sorpreso tutti tranne i liguri, fa capire il perché di tanta attesa: e allora partiamo proprio da quello. Anzitutto, il dato dell’affluenza, calata di dieci punti e attestatasi poco sopra la soglia psicologica del 50%. Si tratta del dato decisivo, se è vero, come ipotizzato dall’istituto Swg studiando i flussi elettorali, che la sconfitta del Partito democratico in Liguria è stata determinata solo per un 4% dal travaso di voti verso la sinistra, e per il 5,9% dall’astensione dei suoi elettori tradizionali che – come molti avevano previsto – fra il voto a una candidata invisa a una buona metà del partito e il voto a chiunque altro, hanno scelto semplicemente il non voto.Il nuovo governatore della Liguria è così Giovanni Toti, con 226.603 preferenze (il 34,44% del 50% dei liguri), asimmetricamente suddivisi fra i gruppi del centrodestra uniti in vista del colpaccio. Successo oltre ogni previsione della Lega Nord, che quasi doppia Forza Italia e si attesta sopra il 20%, con cinque seggi; la stessa Forza Italia non supera il 12% e prende tre seggi, uno va a Fratelli d’Italia: insomma, dal forza-leghismo (Edmondo Berselli) al lega-forzismo (Ilvo Diamanti). Con il presidente più i sei seggi del famigerato listino, premio di maggioranza che si è ritorto contro chi l’aveva voluto, fanno sedici seggi su 30, il minimo sindacale, con quattro consiglieri ancora indagati per le spese pazze del precedente Consiglio. Si può governare la Liguria così? La grande sconfitta è naturalmente Raffaella Paita, la candidata sostenuta, contro ogni logica, dal governatore uscente Claudio Burlando, ma che ha raggiunto solo 183.191 preferenze (27,84%), ottenendo otto seggi: uno smacco bruciante, per chi era in campagna elettorale da quasi due anni. Dichiaratasi renziana quando il sostegno di Renzi gli è divenuto indispensabile, e infatti sostenuta, come più non avrebbe potuto, dal leader e da tutte le ministre e i dignitari del partito presentatisi congiuntamente e disgiuntamente in Liguria nell’ultimo mese della campagna elettorale, ha subito buttato su altri la croce di una sconfitta che si deve essenzialmente a chi l’ha voluta candidata a tutti i costi. Alice Salvatore, del Movimento 5 Stelle, ha ottenuto 163.483 preferenze (il 24,84%), aggiudicandosi sei seggi e confermando che i grillini, almeno nella loro capitale storica, hanno ormai fidelizzato il proprio elettorato anche alle amministrative, prima loro tallone d’Achille; avesse vinto il Pd, qualche loro proposta avrebbe anche potuto avere un seguito, ma così il massimo che può avvenire è il sostegno a singoli provvedimenti della nuova giunta, e giusto per mostrare equidistanza fra destra e sinistra. Il principale motivo di attesa per le regionali liguri – capire che spazio vi sarebbe stato per una lista di sinistra alternativa al Pd – ha trovato una qualche conferma, ma non esaltante, nella performance di Rete a sinistra, il ralliement dei seguaci liguri di Pippo Civati più tutti i partitini della sinistra radicale, Sel e Rifondazione in testa. Luca Pastorino, il civatiano che l’ha capeggiata, è stato votato da 61,944 degli elettori, il 9,41%: recuperando, come s’è detto, non più del 4% dell’elettorato storico del Pd, aggiudicandosi un solo seggio, ed esponendosi all’accusa di aver corso non per vincere ma per far perdere Paita.
Qualche teorico dei giochi, un giorno, elaborerà un modello matematico apposito per spiegare come si sia potuto consegnare una regione rossa al consigliere di Berlusconi, senza un programma, senza esperienze amministrative, senza legami con un territorio, di cui conosce a malapena i confini, le cui uniche doti riconosciute, di cui avrà grande bisogno, sono il buon senso e la moderazione. Ma forse basta ricordare le stazioni della via crucis del Pd: la candidatura di Sergio Cofferati, lanciata dai dirigenti regionali ostili a Paita; le primarie platealmente inquinate pro-Paita non tanto dagli immigrati quanto da esponenti del centrodestra ex scajoliano; l’abbandono del Pd da parte dello stesso Cofferati e il suo appoggio a Pastorino; e mettiamoci pure le due alluvioni, per una delle quali Paita ha anche ricevuto un avviso di garanzia.
Ora è troppo facile dire, ma molti l’avevano detto prima, che sarebbe bastato al Pd cambiare cavallo, presentando come candidato unitario il ministro della giustizia Andrea Orlando, e il 5 a 2 salutato da Renzi sarebbe stato un 6 a 1. Ora, almeno, il decennale e capillare sistema di potere burlandiano si sfarinerà, nonostante i prevedibili tentativi di salire sul carro del vincitore. Quanto ai programmi di Toti, non c’erano prima e si direbbe neppure dopo: se è vero che il vincitore parla di rimediare al dissesto idrogeologico, di Gronda e Terzo Valico, di liste d’attesa e fughe nella Sanità. Le uniche cose nuove, si fa per dire, sono il rifiuto di nuovi immigrati e il ricorso all’esercito in funzioni di ordine pubblico: ma sembrano idee dell’ultima ora, messe lì per compiacere l’azionista di maggioranza leghista.
Sul piano nazionale, si riesce malapena a ricavare due insegnamenti dal disastro perfetto ligure. Il primo, che per Renzi il "partito della nazione" si allontana: per ora, al leader toccherà anzitutto tenere insieme il Pd, ma con una capacità di ascolto infinitamente maggiore di quella mostrata in Liguria. Il secondo, che delle riforme costituzionali e dei sistemi elettorali pensati da Renzi per se stesso potrebbero approfittare altri prima ancora di quanto si temesse: una buona ragione per ripensarci, sinché si è ancora in tempo.