Amazon, il grande store online, anche in Germania è stato a lungo il numero uno. Personalmente compro su Amazon da anni: amazon.com, amazon.uk e, da quando esiste, ovviamente amazon.it. Non soltanto libri: negli ultimi due-tre mesi, ad esempio, un cellulare «muletto», qualche regalo sotto Natale da recapitare agli amici che vivono all’estero, una batteria di ricambio per il Macbook, un caricatore per il cellulare di mia figlia, un disco esterno, una custodia in neoprene. E forse sto dimenticando qualcosa. Sono puntualissimi, e con l’opzione «prime» ti consegnano la merce di uno stesso ordine anche mano a mano che è disponibile, senza alcun sovrapprezzo.

Eppure ogni volta che parte un ordine, soprattutto di libri, c’è sullo sfondo un mai sopito senso di colpa (leggero leggero, niente di serio), tanto che negli ultimi tempi ho deciso di non comprare più libri su Amazon se non per regalarli (come ho appena fatto) a chi sta fuori dall’Italia. Un Dave Eggers in inglese per Caterina che vive a Rijad, comprato su amazon.uk, è arrivato in meno di dieci giorni; ed è costato meno rispetto alla traduzione italiana in vendita da Feltrinelli. Naturalmente questo discorso non vale per gli ebook scaricati per il Kindle. Ma per tutto il resto sì.

Tutto ciò può suonare un po’ patetico. Perché dovremmo preferire un acquisto fisico e diretto in libreria a un (comodissimo) acquisto online sul sito di amazon, che conosce i nostri gusti, ci dà consigli, ci coccola con offerte che solo di tanto in tanto sono specchietti per le allodole ma che il più delle volte colgono nel segno? Amazon ci conosce, non c’è dubbio. Se siamo clienti da un po’ di tempo (più o meno una dozzina d’anni nel mio caso, credo) sa bene che non avrebbe nessun senso suggerirci l’acquisto di certa musica, ma che se abbiamo comprato nel 2006 tre dischi a distanza di poche settimane di musica contemporanea, una nuova edizione delle Chanson di Berio forse ci interesserà. Ma questa sua cortese invadenza alla fine risulta un po’ appiccicosa. Sulla mia mail arrivano le proposte di acquisto e, immancabilmente, le richieste di feedback («Hi Bruno, will you please take a minute to share your experience?»). La mia libraia sa abbastanza bene quali libri potrebbero piacermi e sa molto bene quali libri non leggerei mai. Ma vado io a trovarla quando mi pare e, soprattutto, posso restare a sfogliare e leggiucchiare a lungo. Certo, i libri li pago un po’ di più. Finché dura (la mia libraia, intendo; ma è molto brava e ha un sacco di clienti che cominciano a preferire la sua libreria indipendente alle catene con la tesserina a punti, una pratica odiosa) non potrò che consigliare a tutti di frequentare i suoi ottanta metri quadri di libri.

A gettare altri dubbi sull’opportunità di comprare su Amazon ogni genere di mercanzia, arriva ora un documentario girato da Ard, rete pubblica tedesca sulle condizioni di vita e di lavoro degli impiegati a contratto di amazon.de

Ma a gettare altri dubbi sull’opportunità di comprare su Amazon ogni genere di mercanzia, arriva ora un documentario girato da Ard, rete pubblica tedesca (la buona televisione c’è ancora) sulle condizioni di vita e di lavoro degli impiegati a contratto di amazon.de. In particolare sotto le feste, infatti, vengono assunti migliaia di lavoratori migranti. Molti spagnoli, non solo giovani, per i quali la possibilità di lavorare in Germania di questi tempi è oro. Ma una volta arrivati ci sono brutte sorprese ad attenderli. Innanzitutto di mezzo c’è un’agenzia interinale. Però la paga è nettamente inferiore rispetto a quanto promesso quando sono stati reclutati in Spagna o in Romania (il 12% del loro già misero salario va all’agenzia). Vivono, necessariamente, «in coppia», in uno spazio confinato in un villaggio vacanze abbandonato, in alloggi microscopici, e compiono il tragitto «casa» (si fa per dire) «lavoro» (si fa dire) su un autobus affollato lungo decine di chilometri di autostrada. Durante il giorno (o durante la notte: ovviamente non ci si ferma mai, altrimenti come potrebbero i miei pacchetti arrivare così celermente?) le condizioni di lavoro sono pessime: pause ridotte all’essenziale, meccanismi di regolazione dei rapporti interni che ricordano vere e proprie strategie di sfruttamento basate sul bisogno assoluto che queste persone hanno di lavorare e che si traducono in misure di controllo tipiche dei campi di reclusione. Del resto, sono immigrati e nessuno li ha obbligati ad andarsene dal proprio Paese, no?

Ma l’ultima goccia, che ha portato alla luce tutto questo, riguarda i cosiddetti «servizi di sicurezza». «Servizi» svolti per garantire il rispetto assoluto delle regole interne, e dunque di determinati ritmi di lavoro, basati sulle intimidazioni. Inutile dire che chi prova non a ribellarsi ma anche solo a protestare è fuori.

Per essere certi che gli «agenti» svolgessero con assoluta dedizione il loro compito, quelli del centro operativo di Bad-Hersfeld (in Assia, Germania centro occidentale; ma al centro di Spiegelburg-Augsburg le cose non vanno in maniera troppo diversa) hanno affidato il compito a una vera e propria milizia, ora sospettata di forti legami con l’estremismo di destra (quei simpatici ragazzotti grandi ammiratori di Rudolf Hess, giovani virgulti che adorano le svastiche e tutto il contorno folcloristico e che invece non provano alcuna simpatia per chi arriva a lavorare da fuori, rubando il lavoro ai tedeschi). Dopo l’inchiesta di Ard (che si trovava qui, prima che ne fosse impedita la visione), Amazon è stata costretta a cambiare la società a cui affidare i servizi di sicurezza. Ma basterà a sopire i nostri sensi di colpa?