Mentre drappelli di squadristi cerebrolesi devastavano Milano, sul palco dell’Expo, di fronte alle autorità della Nazione Unita, bambini angioletto chiosavano con «siam pronti alla vita» l’inno di Mameli. Se a un’auto in fiamme si contrappone lo zecchino d’oro, se a sfidare l’innocenza di un coro fanciullesco è l’immagine di una violenza senza senso, si capisce come l’Expo di Milano abbia vinto dieci a zero la partita mediatica del primo giorno. 

Chi, come me, all’Expo non ci andrà, non potrà mai giungere a conclusioni di merito. Ma non c’è bisogno di andare a Milano per rammaricarsi del recinto di banalità in cui è costretto a pascolare il pubblico dibattito attorno a questa manifestazione. Nei prossimi mesi l’esposizione avrà certamente modo di dar prova di sé: se non il valore intrinseco, sapremo valutarne l’utilità, i successi, le debolezze. A breve termine, come sempre, sarà Crozza a spiegarci su cosa ridere amaro, su cosa indignarci dolce; nel lungo periodo, forse, conosceremo anche un po’ di realtà: a compensare le spese arriveranno davvero i tanto attesi investimenti dei paesi partecipanti? Cosa si farà di quell’immensa area, dopo? Risposte che sarebbe stato giusto avere già da prima, domande che una contro-manifestazione pacifica e pensante aveva tutto il diritto di porre. Ma non è semplice fare da contraltare alla «Vita»: mentre in centro si esibiva il Male, in periferia andava in scena il Bene. Applausi, sipario.

C’è qualcosa di insopportabile in quella bandiera tricolore che cinque operai in pettorina gialla e caschetto hanno porto al carabiniere affinché la issasse. In quella coreografia primomaggesca è riassunta tutta la falsità del potere, l’obsolescenza dell’articolo 1 della nostra Costituzione (che dovremmo avere l’onestà di modificare). All’estero non lo sanno – e ci va bene così – ma giusto qualche giorno prima altri operai, loro senza pettorina, raggiungevano quel cantiere da un buco nella rete. Non si sa e forse non sapremo mai quanto lavoro nero si è inserito nella catena di appalti e subappalti con cui si è riusciti a chiudere i lavori. Ma quand’anche si stenda un velo pietoso sulle vicende legate all’allestimento, la retorica proletaria imbastita per l’inaugurazione continuerà a essere un’autentica presa per i fondelli. Perché proprio dal punto di vista del lavoro l’organizzazione di Expo non ha ricercato alcuna pratica innovativa, accontentandosi di sfruttare e riproporre un modello d’impiego ben noto agli aspiranti lavoratori dell’era post-industriale: quello che vede il lavoro occasionale a bassa retribuzione sfumare nello stage e nella prestazione non retribuita, perché ricambiata da un’ulteriore riga di CV, da «un’esperienza internazionale».

Manpower, la società cui Expo ha delegato la selezione delle risorse umane per la fase espositiva, ha aperto un anno fa 650 posizioni lavorative (contratti d’apprendistato e a tempo determinato) cui si sono aggiunti 200 stage con rimborso spese (poco più di 500 euro). Sebbene si sia ironizzato sul fatto che non tutti i selezionati abbiano scelto di firmare il contratto – lo vedi che «choosy» che sono i nostri ragazzi? – la verità, ricordata in solitudine da Repubblica degli Stagisti, è che a fronte di un migliaio di posti di lavoro disponibili sono giunte a Manpower più di 300.000 candidature. Chi ha tra i venti e i trent’anni non si stupisce, perché conosce il bisogno di lavoro dei suoi coetanei.

A fare compagnia agli operai in incognito, agli impiegati in apprendistato e agli stagisti con rimborso spese ci sono poi loro: «i volontari» reclutati da questo sito giovanilista. Stando a quanto vi si legge, a questi ragazzi verranno rimborsate le spese di viaggio: ma a manifestazione conclusa, e con «massimali di rimborso a seconda della provenienza, secondo modalità indicate in un apposito Regolamento che sarà pubblicato a breve». In pratica, se un ragazzo non ha alle spalle una famiglia in grado di anticipargli sei mesi di treni, panini e tram, può scordarsi persino il lavoro volontario. A scanso di ogni imbarazzo, in questi mesi ci hanno ripetuto che tutti i grandi eventi, dalle esposizioni alle Olimpiadi, si giovano del volontariato: chi siete voi per giudicare il desiderio gratuito di «partecipare» a qualcosa di bello, la «voglia di mettersi in gioco» di migliaia di ragazze e ragazzi? Sembra di sentirla, la voce del premier. La quint’essenza del pensiero renziano, dell’efferato buonismo che lo caratterizza, è magnificamente riassunta nell’invito scoutistico che il sito di Expo rivolge ai volontari milanesi: «Oltre ai posti letto messi a disposizione, in un’ottica di condivisione e accoglienza, ogni Volontario, anche attraverso i propri amici e familiari, potrà ospitare altri Volontari che, come lui, parteciperanno all'evento internazionale. A tal fine Expo lancerà a breve una piattaforma social per attivare questa rete di ospitalità originale ed unica». Il volontario, dunque, non solo lavora gratis, ma rimedia in prima persona, con le proprie risorse affettive, all’inospitalità di un sistema che ha promesso miliardi d’investimenti: evidentemente non sulle persone. Questo è il modello economico, la piattaforma culturale su cui si è deciso di fondare Expo, una manifestazione che lucra su una società di entusiasti in rete a costo zero, giovani disposti a qualunque cosa pur di regalarsi l’illusione di essere parte di qualcosa di importante, di «mondiale». Solo in un paese simile la banalità universale può trasformarsi in colpo di genio, la continuità più piatta in rivoluzione creativa: nel nulla assoluto di un vago proposito come «nutrire il Pianeta» riecheggiano fumose speranze di futuro, chissà quali significati. Accade così che alla cupa «morte» di un testo risorgimentale si preferisca l’allegria incosciente della «vita» contemporanea. Qualcuno se lo chiede a quale vita ci stiamo dicendo pronti?