Nei giorni scorsi il Censis, presentando il suo tradizionale rapporto annuale, ha portato ulteriori elementi di conferma alla tesi che la lunga stagnazione dell’economia italiana sia alimentata dalla sfiducia e dal senso di incertezza verso il futuro che ci attanagliano da tempo. Poco dopo è apparsa su "la Repubblica" una lunga intervista del segretario generale della Cgil Maurizio Landini, che propone una "grande alleanza per il lavoro" – un accordo tra governo e rappresentanze del mondo del lavoro e dell’impresa – come via da seguire per cercare di uscire dalla più grave crisi dal dopoguerra. È realistica questa prospettiva? E potrebbe essere efficace come terapia per una diagnosi basata sulla crescente sfiducia?

Tre italiani su quattro ritengono che l’economia continuerà a ristagnare o crescerà poco nei prossimi cinque anni. Non stupisce che queste aspettative negative – confermate anche dal senso di forte incertezza sul futuro, condiviso dalla stragrande maggioranza – si accompagnino a una accresciuta preferenza per la liquidità (aumentano le disponibilità trattenute nei conti correnti o in contanti), mentre calano i tradizionali investimenti nel mattone o in titoli di Stato, per la diminuita convenienza di questi impieghi. Nell’incertezza è meglio restare liquidi, ma questo si riflette a sua volta sugli investimenti delle imprese, che sono sensibilmente diminuiti negli ultimi anni e restano ben al di sotto dei livelli del 2007 (prima della crisi internazionale).

E si riflette ovviamente anche sull’occupazione, che non solo resta bassa nel confronto con altri Paesi ma – sottolinea il Censis - vede crescere il lavoro temporaneo e l’economia nascosta. Non solo si investe dunque poco, ma quando lo si fa prevalgono modalità che limitano l’impegno per il futuro e lasciano per così dire le mani libere per far meglio fronte a un quadro percepito come molto incerto. È evidente però che in tal modo difficilmente si riesce a percorrere la via alta dell’innovazione e della crescita della produttività, l’unica capace di offrire uno scudo efficace all’accresciuta concorrenza dei Paesi emergenti che si manifesta con la globalizzazione.

Ma come si può spiegare questa particolare condizione di sfiducia del nostro Paese? Un indizio importante ce lo offre ancora il Censis. L’Italia, con il 29% di fiducia nella pubblica amministrazione, è al terz’ultimo posto in Europa (prima di Grecia e Croazia). La media europea è del 51%, ma i principali Paesi si collocano tutti ben al di sopra di tale valore. È evidente che a influire sul giudizio, per l’Italia, concorrono molti fattori, del resto già spesso analizzati e discussi: la scarsa prevedibilità, e a volte l’arbitrarietà, dei comportamenti della pubblica amministrazione; la lunghezza e i costi dei procedimenti, compresi quelli legati al contenzioso giudiziario; i ritardi e le inefficienze nella realizzazione di beni e servizi collettivi che possono rendere più efficaci e redditizi gli investimenti privati e favorire l’innovazione. Invece il settore pubblico impiega un volume consistente di spesa corrente per soddisfare interessi particolari a breve, e consuma risorse rilevanti per il pagamento degli interessi sul debito. Un’elevata tassazione alimenta una redistribuzione poco efficace per sostenere lo sviluppo e contrastare le disuguaglianze e insieme molto onerosa per le finanze pubbliche.

Se dunque si può mettere in relazione la lunga e grave crisi economica con la carenza di prevedibilità e con la conseguente sfiducia che affligge imprese e famiglie, appare altrettanto evidente che le cause profonde e di lungo periodo hanno a che fare con il funzionamento delle istituzioni e con le politiche pubbliche: chiamano dunque in causa i caratteri del sistema politico. Non si tratta, anche in questo caso, di una novità. Sui motivi delle scarse capacità della politica italiana, anche in chiave comparata, di dare prevedibilità, di alimentare fiducia e sostenere lo sviluppo vi è un largo consenso. Essi vanno fondamentalmente cercati nella sua particolare propensione a sostenere interessi particolaristici a breve, spesso contraddittori tra di loro, per ottenere consenso a breve termine (per esempio: bassa tassazione e insieme elevata spesa per sussidi e pensioni che combinandosi portano a deficit e debito elevati).

Queste caratteristiche della politica italiana hanno origini lontane che risalgono alla fase costitutiva del sistema politico democratico, dopo la guerra. Non possiamo ovviamente ripercorrere qui in dettaglio le vicende successive, ma ricordiamo una conseguenza cruciale: la costruzione, specie dopo la lunga fase di ripresa del conflitto industriale negli anni Settanta, di un sistema di Welfare che presenta caratteristiche diverse da quelle prevalenti nei Paesi dell’Europa continentale e nordica. Un "Welfare all’italiana" che cresce per aggregazione e sommatoria di interessi particolari, coltivati senza una responsabilizzazione delle forze politiche (di destra e di sinistra) per le conseguenze sistemiche che ne discendono: deficit e debito crescente. Ne risulta una redistribuzione che ostacola la crescita, perché distrae risorse da impieghi produttivi a lungo termine a favore di un assistenzialismo a breve. Ma in tal modo si creano anche frammentazione e disuguaglianze tra i diversi gruppi sociali; e si creano potenti interessi costituiti, difficili da ridefinire e governare in un’ottica universalistica che ridia efficienza e efficacia all’azione pubblica, ed estenda le tutele ai nuovi gruppi sociali, a forte presenza giovanile, coinvolti in esperienze di lavoro e di famiglia più discontinue di quelle del passato.

È in questa situazione che si afferma e acquista consensi, a destra come a sinistra, l’idea che per migliorare la performance della nostra politica e avvicinarla a quella di altre democrazie avanzate occorra realizzare una serie di riforme istituzionali. Esse ruotano intorno all’idea che si debba realizzare un sostanziale rafforzamento della leadership in direzione di una democrazia maggioritaria, attraverso interventi sull’organizzazione partitica in modo da accrescere il potere del leader; sul sistema elettorale (introduzione piena del maggioritario) e sui meccanismi costituzionali (rafforzamento del governo e del suo capo). Un aspetto importante di questa prospettiva è poi l’obiettivo di autonomizzare la leadership dagli interessi particolari attraverso un processo di disintermediazione che ridimensioni drasticamente la "contrattazione politica" con le grandi organizzazioni degli interessi. Insomma, la capacità di superare i condizionamenti di potenti e frammentati interessi costituiti è affidato alle "virtù carismatiche" del capo.

Nonostante il fallimento del referendum sulle riforme istituzionali, non c’è dubbio che la "Costituzione materiale" si sia evoluta di fatto, negli ultimi decenni, in direzione maggioritaria. Una valutazione accurata degli esiti di questa stagione va ben al di là dell’obiettivo che possiamo porci qui. Tuttavia, sarebbe difficile negare che i risultati dal punto di vista della performance del sistema politico e dei suoi effetti sullo sviluppo e sulla coesione sociale siano stati del tutto deludenti. La vecchia e costosa frammentazione degli interessi particolari non è stata intaccata, né sono state impostate strategie a più lungo termine di riqualificazione dell’azione pubblica. L’affermazione di partiti personali o del leader hanno in realtà rafforzato la spinta verso una politica simbolica sempre più gridata sulla ribalta mediatica, studiata e comunicata con il marketing politico per attrarre l’attenzione degli elettori, e per distrarli da ciò che avveniva dietro le quinte, dove continuavano, e per certi versi si rafforzavano, le spinte a soddisfare interessi a breve mentre i problemi restavano e si aggravavano.

Ha agito in questa direzione la trasformazione in senso leaderistico dei partiti che spingeva i capi a cercare di ottenere un consenso immediato per non vedere compromesse le loro chance di successo. Come è noto, nel caso dei leader carismatici tali chance si alimentano infatti ancor di più della loro capacità diretta e personale di soddisfare le promesse: da qui la combinazione tra politica simbolica, marketing e particolarismo a breve. Si tratta però – come hanno ben mostrato, in forme e con tempi diversi, i casi di Berlusconi e Renzi – di una strada che non paga a medio termine. I leader si consumano, anche se resistono sulla scena, perché sono più esposti alla mancata realizzazione delle promesse formulate nella ribalta mediatica. Ne è in un certo senso la riprova lo stesso successo che hanno avuto in Italia le formazioni di tipo populistico; un successo non spiegabile senza tenere conto dell’elevata insoddisfazione verso la politica di larga parte dell’elettorato, che non si sente rappresentato dai partiti tradizionali. Ma anche in questo caso un ulteriore innalzamento del volume e dell’aggressività della comunicazione, unito alla solita e forse più accentuata difesa di interessi particolari, cerca di coprire i gravi deficit di governo e la mancanza di strategie a lungo termine capaci di affrontare i nodi prima discussi.

Viene allora da chiedersi se non sia più plausibile per uscire dalle sabbie mobili una via più basata sull’accordo, una versione adattata al nostro contesto dei compromessi e degli accordi su importanti politiche economiche e sociali tra governi di coalizione (spesso di grande coalizione) e grandi rappresentanze degli interessi del mondo del lavoro e di quello dell’impresa, che continuano a caratterizzare la democrazia negoziale (non maggioritaria) dei Paesi dell’Europa continentale e nordica. A questa strada sembra alludere nella sua intervista Maurizio Landini, ed è un elemento di novità significativo che la proposta venga dal vertice di un’organizzazione come la Cgil, che in passato si è sempre mostrata guardinga verso la concertazione.

Per quale motivo esperienze di questo tipo potrebbero funzionare meglio per affrontare i nodi della riqualificazione dell’azione pubblica e della riduzione del potere di veto degli interessi costituiti sul vecchio sistema? Anzitutto perché misurarsi con tali obiettivi richiede tempo; una risorsa sempre più scarsa nella nostra politica che una logica di accordo con i grandi interessi organizzati potrebbe assicurare. In secondo luogo, perché ridurre il peso degli interessi particolaristici e la tentazione continua di coltivarli richiede uno sforzo così grande, paragonabile nel nostro caso a quello che occorre fare in una situazione post-bellica, che solo un impegno congiunto e il riconoscimento reciproco tra attori politici e sociali diversi potrebbe aiutare; il che implica anche un cambiamento dei termini in cui si svolge la competizione politica nel nostro Paese, che ne fanno attualmente una sorta di combattimento gladiatorio per il pubblico dietro il quale si dà voce a interessi particolari. È evidente che in una logica di grandi accordi ciò sarebbe quantomeno più difficile. Si ridurrebbe in sostanza il "dumping politico" – la competizione al ribasso attuale – e si indebolirebbe la capacità di influenza degli interessi costituiti che ostacola la riqualificazione dell’azione pubblica in funzione dello sviluppo.

Naturalmente, lo sforzo di modificare la propria azione e le relazioni tra di loro riguarda anche le rappresentanze degli interessi. Anche i sindacati dovrebbero agire in modo più unitario, evitando una competizione al ribasso che tutela interessi particolari. Dovrebbero inoltre sforzarsi non solo di offrire la moderazione salariale in cambio di un rilancio e di una ricalibratura del Welfare in direzione più universalistica, ma innovare anche rispetto all’assetto tradizionale delle relazioni industriali legandone più strettamente e incisivamente alla crescita della produttività delle imprese (un tema presente nell’intervista di Landini) e favorendo una mobilità del lavoro socialmente sostenuta anche con percorsi di formazione e riqualificazione.

Ovviamente, tutte le condizioni che abbiamo rapidamente ricordato, necessarie per la realizzazione di accordi efficaci, non sono certo facili da realizzare, anche se non bisogna dimenticare che accordi efficaci si sono avuti qualche volta anche da noi in momenti di emergenza. Ma di fronte alla sfiducia sempre più diffusa e alla gravità dei problemi che pesano sull’economia e sulla società italiana non varrebbe almeno la pena di prendere sul serio la proposta di Landini e di metterla sul tavolo per interrogarsi su come uscire dal pantano?