Chi oggi è un ricercatore nell’università italiana ha buone, anzi ottime ragioni per protestare, anche a voce alta. La storia stessa del ruolo di ricercatore nelle nostre università (che data 1980) è emblematica di un sistema contraddittorio e insufficiente a garantire uno svolgimento adeguato sia delle attività didattiche sia di quelle di ricerca. I due aspetti cruciali di un sistema di formazione avanzato come è quello universitario. Chi dovrebbe fare ricerca sempre più spesso si trova costretto a svolgere funzioni di insegnamento, pur senza averne l’obbligo formale. E chi dovrebbe insegnare, per ruolo, sempre più spesso è coinvolto in funzioni di tipo burocratico-amministrativo che tolgono tempo e risorse alla didattica. La protesta dei ricercatori avviata nella primavera scorsa è cresciuta sino a rischiare di bloccare l'anno accademico. In molti casi infatti, come in diverse facoltà bolognesi (ma lo scenario è assai diversificato), la mobilitazione ha scelto come forma di protesta l’indisponibilità dei ricercatori alla didattica. Come si può ben intuire, il tema non è corporativo e anzi riguarda da vicino l’intero sistema. E si presta bene a punto di partenza per una discussione più complessiva sull’immediato futuro delle nostre università, anche in considerazione di due fatti molto semplici (ma fondamentali e strettamente collegati tra loro): il ricambio generazionale (chi oggi è professore di ruolo grazie agli ingressi degli anni Sessanta-Settanta sta per andare in pensione, e sono molti in questa condizione); la cronica mancanza di risorse (che, evidentemente, sarebbero necessarie per sostituire queste leve di docenti anziani).
Per questo, abbiamo chiesto a una ricercatrice che in questi giorni ha scelto di essere in prima linea nella protesta a Bologna, di illustrarci le ragioni del suo impegno.


La protesta dei ricercatori universitari italiani si è diffusa in seguito alla presentazione del DDL 1905, il cosiddetto Ddl Gelmini, che prevede una serie di norme in materia di riorganizzazione del sistema universitario. Il Ddl tocca molti punti importanti che riguardano la governance degli atenei, il loro finanziamento e il reclutamento del personale docente e del personale tecnico-amministrativo.
A differenza di quello che gran parte delle persone pensa, i ricercatori delle università italiane non fanno solamente ricerca ma svolgono a titolo gratuito una mole notevole di didattica (insegnamenti cosiddetti frontali). Questi insegnamenti non rientrano però nei loro obblighi istituzionali. In altri termini queste persone insegnano nelle università pur non essendo obbligati a farlo.
Eppure, a fronte del grande impegno profuso negli ultimi anni dai ricercatori in ambito didattico e scientifico, il Ddl Gelmini ha previsto la messa ad esaurimento del loro ruolo sostituito dalla figura del ricercatore a tempo determinato. Questa nuova figura, dopo 3+3 anni, potrà essere assunta come professore se avrà conseguito un'idoneità nazionale. Lo stesso disegno di legge prevede poi una enorme limitazione nel numero di professori che potranno essere assunti e quindi sostanzialmente preclude qualsiasi possibilità di carriera alla stragrande maggioranza degli attuali ricercatori. È evidente come un meccanismo del genere, se applicato, metterebbe in ginocchio l’intero sistema, se si considera il notevole numero di professori che andranno in pensione a breve (18000 unità in dieci anni).
La frustrazione delle legittime aspettative per il futuro e la drammatica mancanza di fondi (ogni anno vengono decurtati di quasi il 30% e fra pochi anni saranno insufficienti persino alla copertura degli stipendi) hanno portato i ricercatori a dare battaglia su questo disegno di legge. Non da ultimo perché la sua applicazione porterà presto qualsiasi ateneo italiano fuori dal confronto con gli altri paesi Ocse, in stridente contrasto con i dettami dell'Unione europea che vorrebbero vedere aumentati sia il numero di laureati sia la loro qualità.
La protesta dei ricercatori non va quindi intesa come una difesa corporativa, ma bensì come la strenua difesa della qualità della didattica e della ricerca che portata avanti con grande passione e spesso anche con sacrificio. Quel che si chiede è che venga preservato il carattere pubblico dell'università e la sua autonomia e che si mantenga al suo interno il binomio imprescindibile di didattica e ricerca.
Si tratta di obiettivi che dovrebbero essere condivisi da tutto il corpo accademico e dagli studenti. Per questo chi oggi è protagonista della protesta si augura che tutti – docenti, studenti e organi accademici – si aggiungano al coro di voci nel chiedere senza esitazione e con fermezza provvedimenti legislativi che valorizzino il patrimonio culturale di cui l'università è depositaria.


Sonia Melandri [ricercatrice confermata all’Università di Bologna e rappresentante dei ricercatori nel Consiglio di Facoltà di Scienze]