Nella classifica di Transparency International, Singapore, a pari merito con Danimarca e Nuova Zelanda, risultava nel 2010 il Paese meno corrotto al mondo. La presenza al vertice di Danimarca e Nuova Zelanda non sorprende: i Paesi nordici e le ex-colonie britanniche sono sempre stati poco corrotti. Sorprende invece trovare Singapore (e Hong Kong, poco più sotto in classifica), Paesi nei quali fino a quarant’anni fa il fenomeno dilagava. La corruzione non è dunque un destino segnato dalla storia, al quale ci si deve rassegnare. Si può combattere e vincere in tempi relativamente brevi – trenta/quarant’anni sono tempi storicamente brevi, meno di due generazioni - se si adottano misure adeguate.

Anche per queste ragioni abbiamo chiesto a Claudio Landi un articolo sul successo di Singapore nella lotta alla corruzione (l’articolo uscirà sul «Mulino», n. 2/2012). Ci pare che comprendere come un Paese quale Singapore sia stato in grado di far fronte al fenomeno sia utile per varie ragioni. Lo è innanzitutto perché il nostro è un Paese molto corrotto (un po’ meno della Grecia tra i Paesi europei, ma più di molti Paesi in via di sviluppo: di gran lunga il più corrotto nella sua classe di reddito pro-capite). Lo è perché la corruzione, e più in generale l’illegalità, la criminalità e l’inefficienza amministrativa –fenomeni strettamente collegati - sono ostacoli formidabili alla crescita economica e al benessere della popolazione, oltre che una grave lesione alla qualità della democrazia e della convivenza civile. Si tratta di un fenomeno italiano di antica data, con radici culturali profonde, ma che da Mani Pulite in poi, con qualche oscillazione, è sempre stato al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica. È un fenomeno che ha stimolato studi buoni e numerosi (la sintesi migliore per un lettore non specialista è quella di D. della Porta e A. Vannucci). Le iniziative politiche di contrasto che la corruzione ha suscitato sono state molteplici, ma tutte caratterizzate da scarso successo. Insomma, la corruzione in Italia è massiccia, molto dannosa, di essa sappiamo molto, ma non riusciamo a contrastarla. Non è allora il caso di considerare con attenzione le esperienze di altri Paesi, anch’essi tradizionalmente molto corrotti, ma che sono riusciti ad estirpare questa piaga?

Purtroppo l’esperienza di Singapore, ma anche quella piuttosto simile di Honk Kong, oltre a indicarci modalità efficaci per combattere la corruzione e ridurla a dimensioni modeste, ci fa anche capire perché da noi è difficile adottare queste “modalità efficaci”. In sostanza, quelle esperienze ci dicono che la lotta alla corruzione dev’essere un obiettivo prioritario del governo, dell’intera classe dirigente, per un periodo di decenni, non di anni: storicamente un periodo breve, certo, ma politicamente molto lungo in democrazia, dove i governi possono cambiare ogni quattro/cinque anni e con essi possono mutare i principali orientamenti politici. Ci dicono, inoltre, che per ottenere buoni risultati la lotta deve investire molti campi dell’azione g overnativa: la legislazione, il disegno delle istituzioni, le pratiche giudiziarie, le politiche salariali pubbliche (è più facile resistere alla corruzione se si è ben pagati), le iniziative di repressione.

Una democrazia (?) autoritaria come quella di Singapore, dove la classe dirigente è restata sempre la stessa, e immutata la sua determinazione a fare di questa città-stato un modello di efficienza amministrativa e di crescita economica, ha avuto la possibilità di sostenere la sua strategia anticorruzione per un periodo sufficientemente lungo da ottenere gli straordinari risultati che Transparency International registra.

In Italia il grande episodio di lotta alla corruzione, Mani Pulite, è stato un’iniziativa della sola magistratura, che rapidamente ha incontrato l’ostilità dei governi, creando una situazione di vero e proprio conflitto di poteri, e non desta sorpresa che le iniziative extragiudiziarie siano state così inefficaci. L’esempio più clamoroso è stata l’istituzione di un Alto Commissariato per la lotta alla corruzione nel 2003, posto alle dirette dipendenze del presidente del Consiglio, allora Silvio Berlusconi: la volpe a capo del pollaio, alcuni direbbero.

Nessuna speranza, dunque, in una democrazia così turbolenta e conflittuale? Personalmente credo che qualche speranza ci sia, in questa fase politica in cui il passaggio al governo Monti segnala che il nostro Paese sembra determinato a metter mano ai problemi strutturali che ne frenano lo sviluppo, e tra questi, in primis, l’illegalità e la corruzione. Se si forma un atteggiamento comune ai principali partiti politici, se i governi asseconderanno le iniziative della magistratura invece di ostacolarle, se verranno prese in tutti i campi misure analoghe a quelle prese a Singapore – e soprattutto se queste misure resisteranno al mutare dei governi - potremo avere insieme bassa corruzione e buona democrazia, e inizieremo a risalire la classifica di Transparency International invece di continuare a discenderla.