La settimana che si è appena conclusa si ricorderà tra l’altro perché la questione del lavoro è diventata oggetto di un question time tra una presidente del Consiglio donna (rectius: il presidente) e la prima segreteria donna del principale partito di opposizione.

Nella domanda formulata al capo del governo sono affiancate richieste di soluzioni concrete su precarietà, lavoro povero, donne e giovani; ma soprattutto l’approvazione del salario minimo da fissare per legge, complementare alla contrattazione collettiva che ha bisogno del supporto di una legge sulla rappresentanza sindacale per evitare i contratti pirata. Cui si aggiunge, in sede di replica, il rapporto tra immigrazione (un’ossessione, come quella per il trattamento delle famiglie arcobaleno) ed emigrazione motivata dai bassi salari.

Nella replica altrettanto immediata la posizione del governo è chiara: la soluzione non è la fissazione di un salario minimo legale, perché il salario minimo legale è destinato a diventare un parametro non aggiuntivo, ma sostitutivo della contrattazione, comportando un complessivo peggioramento delle condizioni dei lavoratori e facendo così un favore alle grandi concentrazioni economiche che potrebbero rivedere al ribasso i diritti dei lavoratori. «Credo sia molto più efficace estendere la contrattazione collettiva nei settori in cui non è prevista e tagliare le tasse sul lavoro, […] lavorare per combattere le discriminazioni e le irregolarità», è la risposta letterale fornita dal presidente Meloni.

Nella stessa settimana che si è appena conclusa, sono ricomparse, inattese, anche le lucciole di Pasolini. Le ha ricordate Yolanda Díaz – ministra del Lavoro e vicepresidente del Consiglio nel governo spagnolo – sullo stesso palco del Congresso della Cgil di Rimini in cui si sono replicate le domande e le risposte del question time, in una triangolazione ideale con la rappresentante del Paese che – andando in controtendenza rispetto all’Italia – ha ridotto precarietà e lavoro povero.

Yolanda Díaz ha offerto una inaspettata rappresentazione simbolica per affrontare la questione sociale, evocando – con le lucciole – la metafora dei tempi difficili, ma anche dei fievoli segnali di speranza

Un’inaspettata rappresentazione simbolica in cui la politica ( non solo al femminile, ma femminista) affronta la questione sociale, con ricette concrete da applicare evocando – con le lucciole – la metafora dei tempi difficili, ma anche dei fievoli segnali luminosi di speranza. In un discorso appassionato, Díaz riannoda il senso del rapporto tra politica e immaginario. Come rappresentante del governo che assumerà da giugno 2023 la presidenza dell’Unione europea, collega tradizione e innovazione, pianificazione ecologica e questione sociale, contrattazione collettiva verde, dimensioni diverse e complementari, citate non a caso, ma per sostenere una certa idea di democrazia: quella in cui non si dimenticano condizioni materiali delle persone, proponendo un laburismo democratico, dialogo sociale, un modello di dignità del lavoro in cui si sente chiaro non solo «l’accento del Sud d’Europa», ma anche il presupposto femminista che l’accompagna.

La ricetta spagnola è chiara e semplice ed è ribadita poco dopo l’8 marzo, negli stessi giorni in cui si discute delle sanzioni alla legge solo «sí es sí», la legge di garanzia integrale della libertà sessuale, e si ragiona dell’intervento sulla transfobia, un Paese che conosce il matrimonio egualitario e i congedi paritari tra i genitori. Un Paese che con il supporto del dialogo e della contrattazione, riduce i contratti precari e limita degli appalti, ma conferma anche il salario minimo legale, con quell’aumento dell’8% (pari a 80 euro) per il 2023 del salario minimo interprofessionale (Smi), portandolo a 1.083 euro mensili per 14 mensilità. Il metodo valorizzato è quello del ritorno al dialogo sociale come risposta anticiclica di sistema all’approccio neoliberale che ha caratterizzato le riforme spagnole dopo la crisi del 2008 (F.S. Trillo Parraga, Saliendo del bucle neoliberal: la reforma laboral espanola de 2021, “Lavoro e diritto”, n. 4/22, p. 773).

Ci sono modi diversi di intendere la questione sociale (con le proprie complessità, interrelazioni, intersezioni); di certo, la prospettiva femminista è oggi intersezionale, attenta al rispetto dei diritti civili, sensibile alla dimensione sovranazionale delle regole, in particolare dell’Unione europea, e alla storia e al ruolo rivestito dal sindacato nella tutela dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Scontato che dalla politica ci si aspetta non solo retorica, ma anche risposte concrete, come concrete sono le risposte fornite dalla riforma spagnola del mercato del lavoro.

Tra le tante risposte che si attendono in Italia nella logica di integrazione tra diritti sociali e diritti civili – compresi i congedi egualitari dei genitori e il riconoscimento della certificazione per i figli delle famiglie omogenitoriali – vi è proprio il complessivo approccio alla dir. 2022/2041/UE del 19 ottobre 2022, relativa ai salari minimi adeguati nell’Unione europea, da trasporre entro il 15 novembre 2024.

La direttiva Ue non impone agli Stati Ue il salario minimo legale. Tuttavia, presuppone una riflessione sincera sui limiti e le potenzialità della sola contrattazione collettiva

Scontato che la direttiva non impone agli Stati Ue il salario minimo legale, la sua attuazione presuppone una riflessione sincera sui limiti e le potenzialità della sola contrattazione collettiva a reggere il peso degli obiettivi della direttiva che per «migliorare le condizioni di vita e di lavoro nell’Unione, in particolare l’adeguatezza dei salari minimi per i lavoratori al fine di contribuire alla convergenza sociale verso l’alto e alla riduzione delle disuguaglianze retributive, la presente direttiva istituisce un quadro per […] l’adeguatezza dei salari minimi legali» per conseguire «condizioni di vita e di lavoro dignitose; la promozione della contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari; il miglioramento dell’accesso effettivo dei lavoratori al diritto alla tutela garantita dal salario minimo ove previsto dal diritto nazionale e/o da contratti collettivi». Il rispetto dell’autonomia delle parti sociali e il diritto a negoziare contratti collettivi sono garantiti. Ma il ragionamento della Commissione è più complesso perché non si ferma alla contrattazione collettiva (strumento), ma sugli effetti della stessa, sulle persone che lavorano: subordinati, flessibili, in appalto, in cooperativa, nel pubblico e nel privato. Il ragionamento è esplicitato nei considerando che spiegano che esiste una relazione evidente tra il tasso di copertura della contrattazione collettiva (che deve essere elevata) e l’adeguatezza dei salari dei lavoratori e delle lavoratrici. In Italia questa correlazione non è automatica.

«Gli Stati membri con una bassa percentuale di lavoratori a basso salario mostrano un tasso di copertura della contrattazione collettiva superiore all’80%. Analogamente, la maggior parte degli Stati membri che presentano salari minimi di livello elevato rispetto al salario medio sono caratterizzati da una copertura della contrattazione collettiva superiore all’80%. Pertanto, ciascuno Stato membro con un tasso di copertura della contrattazione collettiva inferiore all’80% dovrebbe adottare misure volte a rafforzare tale contrattazione collettiva. Quella dell’80% è la soglia che fa scattare l’obbligo di elaborare un piano d’azione» (Considerando 22 della Direttiva).

Il quadro italiano è complesso, e ragionare solo di potenzialità senza ricordare i limiti rischia di alimentare equivoci significativi, spostando l’attenzione dall’obiettivo allo strumento.

A problemi storici della contrattazione collettiva (priva di efficacia erga omnes e con copertura variabile tra i diversi settori produttivi), si aggiungono nuove peculiarità (moltiplicazione dei soggetti contrattanti per parte datoriale e sindacale, stipula di contratti collettivi cd. «pirata»; obsolescenza dei perimetri dei diversi settori produttivi; moltiplicazione delle figure professionali nella fase di transizione digitale).

Ma è soprattutto sui dati che si concentrerà l’attenzione nella fase di trasposizione, con il governo che sosterrà una troppo facile prospettiva di adeguamento già raggiunto (a prescindere dalla questione dell’adeguatezza, davvero non ancora verificata da nessuno, in termini generali o solo settoriali). I contratti censiti in Italia sono circa 936, di cui solo 300 risultano firmati dai sindacati rappresentativi. L’allineamento tra la banca dati del Cnel, dell’Inps e del ministero del Lavoro in corso d’opera consentirà di avere un quadro più chiaro rispetto al tasso di copertura (comunque considerato superiore all’80% e, a seconda dalla banca dati utilizzata, che può arrivare al 100%), mentre sui livelli retributivi effettivi, estremamente variabili nella stessa categoria di riferimento, il quadro rimane ambiguo. Le ricerche in corso dimostrano che è molto lontana la comprensione completa e precisa del quadro finale e che i dati utilizzati non solo sono variabili, ma sono anche poco affidabili (Cnel, La questione salariale in Italia tra legge e contrattazione collettiva, 12.12.2022). Anche le ricette proposte sono varie. Sono almeno quattro i progetti di legge presentati dopo il question time dalle opposizioni, con un sindacato che rimane restio alla legge sul salario minimo legale, mentre sostiene un doppio intervento sull’erga omnes e sulla rappresentatività sindacale.

Dopo il 30 novembre 2022, data del rigetto alla Camera dei deputati degli ordini del giorno dedicati alla questione salariale, il governo prima tace e poi, costretto, esclude la legge.

La povertà dei lavoratori e delle lavoratrici, con l’attenzione alla Spagna – Paese che terrà la presidenza del Consiglio europeo da luglio a dicembre prossimi – meriterebbero la «luce» di una proposta forte di un’unica legge, anche di iniziativa di legge popolare. Per dissolvere ogni margine di ambiguità. Perché il segnale deve essere forte e chiaro e non sommerso da troppi distinguo e tecnicismi. Sotto quel limite legale, infatti, non ci può essere dignità in attuazione dell’articolo 36 della nostra Costituzione.