Nei giorni scorsi la polemica intorno a una mostra inaugurata presso le Nazioni Unite intitolata “Jasenovac – il diritto a non dimenticare”, dedicata al campo di concentramento di Jasenovac, ha riportato sulla scena politica le vicende di un passato terribile e controverso, che ancora divide le due ex Repubbliche jugoslave.

La mostra, promossa dalla Serbia nell'ambito della Giornata della Memoria è curata dallo storico israeliano Gideon Greif insieme a un gruppo di esperti provenienti da 7 Paesi e ripercorre la tragica esperienza del campo aperto nel 1941 sotto lo Stato indipendente croato. Stando alle cifre ufficiali del memoriale di Jasenovac, le vittime finora identificate attraverso una lunga (ma non definitiva) ricerca sono 83.145, di cui 47.627 serbi, 16.173 rom, 13.116 ebrei, 4.255 croati antifascisti. Il dato più agghiacciante è forse rappresentato, però, dal numero di bambini uccisi: 20.101, un quarto del totale delle vittime.

La Croazia, direttamente chiamata in causa, non ha gradito i contenuti della mostra e ha fatto di tutto affinché le Nazioni Unite non la ospitassero, inviando una nota ufficiale di protesta in cui accusa la Serbia di “manipolazioni” attraverso la “diffusione di dati falsi” a “fini propagandistici”. Tra gli elementi contestati dalle autorità croate c'era la cifra di 700.000 vittime, che richiamava i dati diffusi dalla storiografia revisionista serba nel corso degli anni Ottanta e tuttora ribaditi negli ambienti nazionalisti. Secondo la stampa croata, il pannello che riportava questa cifra è stato rimosso in seguito all’intervento del ministero degli Esteri di Zagabria.

Tuttavia, il problema cruciale, al di là della controversa disputa numerica, riguarda la persistente eredità della Seconda guerra mondiale nell'area ex-jugoslava, che ha avuto il suo epilogo nelle ultime guerre degli anni Novanta e che si traduce in una pressoché totale incapacità – diffusa in tutta l'area – di fare i conti con le proprie responsabilità, per quanto riguarda sia la Seconda guerra mondiale, sia le guerre più recenti.

Assistiamo quindi, come ha scritto recentemente Dejan Jović (Rat i mit, Fraktura, 2017), a una guerra continua, che negli ultimi anni si manifesta attraverso “la guerra delle interpretazioni della guerra”: sia della Seconda guerra mondiale, sia di quella degli anni Novanta, in cui lo scopo principale è (auto)rappresentarsi esclusivamente come vittime, ignorando i propri ruoli da carnefici.

E il dibattito intorno alla mostra inaugurata nelle Nazioni Unite non è che l'ennesimo esempio: infatti, se da un lato la Serbia insiste (giustamente) sulle vittime dello Stato indipendente croato, dall'altro trascura completamente il ruolo che la stessa Serbia (sotto il regime collaborazionista di Milan Nedić) ha avuto nella Shoah. È vero che, a differenza dello Stato indipendente croato, dove a gestire i campi erano esclusivamente gli ustascia croati, in Serbia i campi erano gestiti dalle SS, ma è altrettanto indubbio che furono le forze collaborazioniste locali serbe a catturare e a consegnare le vittime (per lo più ebrei e rom) ai nazisti.

Sull'altro versante, la Croazia, anche a distanza di cinque anni dall'ingresso nell'Unione europea, non si è ancora mostrata capace di prendere ufficialmente le distanze dal passato ustascia, condannando in via definitiva (e non soltanto all'occorrenza) il regime di Pavelić. Per usare le parole del filosofo Žarko Puhovski, piuttosto che protestare contro la Serbia, la Croazia avrebbe fatto meglio a organizzare e proporre per prima una mostra del genere, promuovendo la conoscenza di quella terribile esperienza. Infatti, i dati sono piuttosto sconfortanti: soltanto 9 scolaresche croate hanno visitato il memoriale di Jasenovac nel corso del 2017 (mentre dall'estero sono venute in visita 12 scolaresche, di cui la metà solo dall'Italia, ma nessuna dalla Serbia).

Dopo la recente visita al memoriale di Jasenovac, anche il direttore generale del World Jewish Congress per Israele, Laurence Weinbaum, ha dichiarato di essere rimasto profondamente turbato non solo dal modo in cui vengono esposte e raccontate le vicende all'interno del museo ma, soprattutto, dalla volontà di “offuscare e negare” quei crimini “dall'alto”. La Croazia, a suo avviso, non ha una società civile matura, in grado di confrontarsi con le proprie responsabilità, e, ancor più, manca una volontà istituzionale volta a impedire o sanzionare con efficacia la glorificazione di coloro che avevano partecipato attivamente allo Stato indipendente croato, macchiandosi di gravissimi crimini contro l'umanità.

Le conseguenze delle politiche degli anni Novanta che si ricollegavano esplicitamente o implicitamente allo Stato indipendente croato sono ancora vive e visibili nello spazio pubblico croato: benché ora sia in vigore una legge che (almeno formalmente) lo vieta, a lungo le strade e le piazze croate hanno portato i nomi di uomini di primo piano dello Stato indipendente croato (spesso responsabili di massacri) e sono stati eretti non pochi monumenti in loro ricordo.

A questo si è aggiunto un altro fenomeno, ben più complesso da gestire, che riguarda il “mescolamento” delle memorie pubbliche dell'esperienza degli ustascia (relativa alla Seconda guerra mondiale) e di quella delle forze armate croate che hanno combattuto nelle guerre degli anni Novanta. È indicativa in questo senso la targa commemorativa di undici soldati croati caduti nella guerra degli anni Novanta, che riporta lo slogan e il saluto ustascia: "Per la patria, pronti!" (analogo allo “Sieg Heil”), situata proprio a Jasenovac, a pochi passi dal memoriale. Dopo un anno di aspre polemiche e controversie, la targa è stata spostata (ma non rimossa) a qualche chilometro di distanza, nella vicina cittadina di Novska, ed è oggi sotto stretta sorveglianza delle autorità di polizia.

Il revisionismo storico, quando non l'aperto negazionismo, sono dunque oggi tollerati e, talvolta, persino incoraggiati e finanziati dalle istituzioni croate, convinte di promuovere in questo modo la pluralità dei punti di vista (in particolare, quello che vede il campo di Jasenovac come campo di lavoro e non di sterminio). A differenza della Polonia, che proprio alcuni giorni fa è arrivata a sfidare apertamente la memoria pubblica europea della Shoah e a sanzionare per legge i sostenitori di una collaborazione polacca allo sterminio ebraico, la Croazia ha finora mantenuto un profilo più basso sul piano internazionale, ma non meno pericoloso sul piano interno. Peraltro, la sistematica negazione delle responsabilità croate nella Seconda guerra mondiale, così come nelle guerre degli anni Novanta, si intreccia indissolubilmente con il pieno recupero pubblico di un discorso nazionalista, che rischia di inasprire di nuovo i rapporti con i Paesi vicini (in particolare, con Serbia, Slovenia e Bosnia-Erzegovina). Anche se gli occhi dell'Occidente sono puntati soprattutto sugli inquietanti sviluppi in Polonia e Ungheria, in Croazia si profila uno scenario di incertezza e instabilità, che spinge a guardare con pessimismo al destino di tutta la regione.

 

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