La tendenza di molti studenti a laurearsi ben oltre la durata legale del corso di laurea è uno dei più annosi problemi del sistema universitario nazionale: una peculiarità tanto consolidata da portare addirittura a coniare il neologismo "fuoricorsismo". Sul tema è intervenuto di recente anche il ministro dell’Istruzione e della Ricerca scientifica, Francesco Profumo, annunciando una serie di interventi per ridurre le proporzioni di quello che appare come un problema sociale, piuttosto che individuale.
Secondo i dati forniti dal ministero, infatti, gli studenti fuoricorso rappresentano il 40% degli iscritti e il loro numero è cresciuto costantemente nel periodo 1969-2009, da quando la legge n. 910 ha aperto l’accesso all’università a tutti i diplomi.

Con l’introduzione della riforma del 2001, generalmente indicata come “3+2”, la quota di fuoricorso si è ridotta significativamente, passando dal 76,2% del 2002 al 56,3% del 2008, benché tale dato sia inficiato da chi è transitato dal vecchio al nuovo ordinamento, riuscendo così a laurearsi rapidamente e a uscire dallo stock dei fuoricorso. Tuttavia, oltre il 57% dei laureati triennali nel 2010 non è riuscito a completare gli studi nei tempi prescritti e ben il 24% ha impiegato almeno il doppio degli anni previsti. L’Italia, poi, è prima fra i paesi Ocse nella graduatoria degli abbandoni universitari – circa il 55% degli iscritti all’università contro una media Ocse del 31%.

Rimodulare l’offerta formativa terziaria, introducendo corsi di laurea con una durata legale più contenuta (3 anni), si è rivelata una strategia insufficiente a scardinare le anomalie proprie del sistema terziario. È impensabile, infatti, attribuire a una sola misura la capacità di rimuovere tutte le criticità del sistema universitario, senza toccare anche le altre concause che determinano gli esiti negativi del fuoricorsismo e degli abbandoni universitari. È plausibile attendersi il successo di una riforma solo se è attuata in modo da rimuovere tutte le ragioni del fallimento, da un lato modificando le regole di selezione e funzionamento delle università; dall’altro migliorando l’incontro tra offerta e domanda di capitale umano.

I rimedi, per essere efficaci, dovrebbero tuttavia agire su più fronti contemporaneamente: sui meccanismi di accesso all’università, sui contenuti e sull’organizzazione dell’attività didattica, sul finanziamento del sistema universitario e, infine, sui collegamenti con il mercato del lavoro. Anzitutto emerge la necessità di rafforzare le attività di orientamento già negli ultimi anni delle scuole superiori, in modo da consentire ai giovani di individuare per tempo il percorso universitario più adatto alle loro caratteristiche. Tali misure dovrebbero poi essere accompagnate – al completamento degli studi secondari superiori – da efficaci meccanismi di regolamentazione degli accessi all’università. La creazione di percorsi professionalizzanti da affiancare a quelli più teorici, in particolare, consentirebbe di indirizzare in maniera appropriata i vari candidati verso percorsi di formazione in linea con le attese e competenze maturate. In attesa di interventi volti a creare percorsi differenziati all’interno del sistema universitario sarebbe comunque utile porre più attenzione – anche negli attuali percorsi di studio – al risvolto applicativo degli studi, stimolando gli studenti a sviluppare capacità di problem solving, le più utili nel mercato del lavoro.

Anche l’attuale organizzazione degli studi andrebbe rivista: riducendo l’eccessiva flessibilità nella programmazione degli esami da parte degli studenti, limitando la possibilità di sostenere più volte lo stesso esame e vincolando l’iscrizione all’anno accademico successivo solo agli studenti che hanno superato tutti gli esami previsti nel piano di studio dell’anno precedente. Gli interventi appena descritti, tuttavia, non sarebbero in grado di incidere positivamente sulla regolarità degli studi in assenza di una migliore allocazione delle dotazioni di capitale fisico e umano, tale da consentire lo svolgersi di attività didattiche per piccoli gruppi e di agevolare di conseguenza l’interazione continua tra docenti e studenti. Ricadute positive in termini di riduzione degli abbandoni e della durata degli studi si avrebbero poi dal rafforzamento del diritto allo studio, in modo da garantire agli studenti meritevoli di completare la formazione terziaria indipendentemente dalla ricchezza personale e familiare.

Dal lato del finanziamento derivante dalle famiglie, sembra condivisibile l’ipotesi sollevata dal ministro Profumo di introdurre maggiori incentivi (o quanto meno eliminando gli attuali disincentivi) a un percorso di studi regolare. Dal lato del finanziamento derivante dallo Stato, invece, l’introduzione nel meccanismo di determinazione del Fondo di finanziamento ordinario delle università di indicatori che penalizzano le università con una quota elevata di fuoricorso sembra andare nella logica di incoraggiare gli atenei a creare le condizioni affinché gli studenti si laureino nei tempi previsti. Tali misure dovrebbero essere però accompagnate da adeguati strumenti di verifica, al fine di evitare uno scadimento della qualità della didattica.

Considerando poi come le difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro costituiscano un forte disincentivo a laurearsi nei tempi previsti, l’ultimo fronte su cui si dovrebbe agire è quello – cruciale – della transizione università-lavoro. Da questo punto di vista, nonostante la progressiva diffusione dei tirocini/stage in azienda durante il percorso universitario (secondo l’ultima indagine AlmaLaurea, il 57% dei laureati ha svolto un periodo di tirocinio), solo una bassissima quota di essi si trasforma in reali opportunità lavorative dopo la laurea e, in generale, le attività di job placement delle università, laddove esistono, hanno ancora un’efficacia limitata.

 

Questo articolo è stato scritto insieme a Carmen Aina e Giorgia Casalone (Università del Piemonte Orientale).