Renzo De Felice morì il 26 maggio del 1996 a sessantasette anni. Da allora, in Italia e nel mondo, si sono susseguite trasformazioni epocali, tanto che sarebbe difficile immaginare che cosa direbbe di fronte agli scenari odierni, così diversi da quelli della metà degli anni Novanta. Eppure, se fosse vivo, non si stupirebbe della ricorrente discussione sul ritorno del fascismo, perché per tutta la vita è stato intervistato sulle similitudini fra le nuove destre e il regime mussoliniano. Certo, quando iniziò a occuparsi dei temi che l’avrebbero accompagnato nel corso della sua lunga carriera di studioso, non era noto al grande pubblico.

Allievo di Federico Chabod e di Delio Cantimori, nei primi anni Sessanta aveva lasciato da poco il Pci, maturando un distacco sempre più profondo dalla cultura politica comunista e avvicinandosi al Psi. Aveva studiato i giacobini italiani e nel 1961 pubblicato la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo con Einaudi. Con quel libro egli mostrò che il fascismo non era stato un passivo imitatore del regime nazionalsocialista e che, a differenza di quanto avevano dichiarato molti intellettuali antifascisti, i giovani educati ai miti e ai riti del regime totalitario non si erano trovati a disagio di fronte alla legislazione razziale. Dando spazio alla cultura degli anni Venti e Trenta, come nessuno storico italiano faceva a quel tempo, De Felice ricordò la mobilitazione degli scienziati e i contributi degli ideologi Julius Evola, Giulio Cogni e Paolo Orano. Era convinto che il razzismo degli italiani fosse meno violento di quello biologico dei tedeschi, e che dal 1938 molti cattolici si fossero allontanati dal regime proprio in seguito all’adozione della legislazione razziale. Su questi aspetti gli studi degli anni successivi hanno proposto un’interpretazione diversa, ma De Felice fu il primo storico a confutare lo stereotipo rassicurante, introdotto negli anni Trenta, secondo cui gli italiani sarebbero stati contrari alle leggi del 1938. Incapaci di azioni efferate e abituati a convivere con gli ebrei da millenni, si sarebbero confermati brava gente, aliena dalla ferocia nazionalsocialista.

In realtà, nonostante inaugurasse un nuovo filone di ricerca, il lavoro di De Felice non diede vita a un dibattito, e per i successivi vent’anni restò un caso isolato all’interno di una storiografia caratterizzata dal perdurare della disattenzione e da una visione rassicurante del razzismo e dell’antisemitismo italiano. A pensarci, fu un destino simile a quello della sua monumentale biografia di Mussolini, che è una storia del fascismo raccontata attraverso la vita del suo leader. All’inizio ignorata, poi duramente criticata, è da diversi decenni un caposaldo della storiografia italiana, una delle opere più utilizzate da chiunque si avvicini allo studio del ventennio. Nei suoi otto volumi, pubblicati dal 1965 al 1997 (l’ultimo postumo), De Felice ha affrontato questioni che sono diventate centrali nelle successive analisi sul regime, ha proposto un’interpretazione generale della storia d’Italia e, seppure esprimendo giudizi non sempre condivisibili, ha trasformato il nostro modo di studiare. Per cui esiste un prima e un dopo De Felice.

Innanzitutto con la sua opera egli ha mostrato che il fascismo è un oggetto storico, non soltanto un fenomeno politico da combattere, ma una fase decisiva della nostra storia e di quella del Novecento. Utilizzando un’espressione di Angelo Tasca, egli ricordava nei suoi scritti, e durante le sue lezioni universitarie, che definire il fascismo significa scriverne la storia: e cioè capire dal di dentro le peculiarità, le caratteristiche specifiche di un’esperienza, ricostruirla attraverso le fonti.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 1/20, pp. 141-146, è acquistabile qui