Raymond Boudon (Parigi, 27 gennaio 1934 – Parigi, 10 aprile 2013), si legge su Wikipedia, è stato un sociologo liberale francese. Asciutta ed essenziale, questa definizione contiene le radici del suo pensiero. Il profilo intellettuale di Boudon è infatti profondamente debitore tanto del termine “liberale”, quanto – anche se per ragioni diverse, se non opposte – di quello “francese”.

Come ricorda efficacemente Salvatore Abbruzzese: “All’idea di un soggetto prigioniero delle culture, delle norme e delle convenzioni, Raymond Boudon ha sempre contrapposto un soggetto consapevole, che in ogni occasione cerca di scegliere, pur tra mille errori e non poche disinformazioni, quella che gli appare come la scelta migliore”.

Per Boudon questa non era solo un’opzione analitica – spiegare i fenomeni sociali partendo dalle ragioni e dalle azioni degli individui – ma anche una preferenza politica e morale, radicata appunto nella tradizione liberale. Egli riteneva infatti che le ragioni di chi agisce devono, come prima opzione, essere assunte per “buone”, cioè forti e fondate.

Questo permette di dare conto dei molti fenomeni enigmatici che ci circondano, veri e propri “puzzle” che interrogano sia la teoria che il senso comune, troppo spesso ricondotti a “forze” che spingono i soggetti agenti in specifiche direzioni contro la loro volontà, intenzionalità e capacità logica. Così, ad esempio, il lavoratore può essere convinto che l’introduzione di nuove macchine diminuisca la necessità del lavoro umano e, di conseguenza, si opporrà all’innovazione tecnologica. Questa credenza tratta dall’esperienza locale è basata su ragioni solide ma, contemporaneamente, è oggettivamente falsa a livello globale, in quanto l’introduzione di nuove macchine richiede nuovo lavoro umano legato alla progettazione, realizzazione e funzionamento delle tecnologie innovative.

Boudon affronta questi temi in quasi tutti i suoi testi ma, in particolare, qui si vogliono ricordare questi, pubblicati da il Mulino:, Il vero e il giusto (1997), Il senso dei valori (2000), A lezione dai classici (2002), Sentimenti di giustizia (2002), Declino della morale? Declino dei valori? (2003), Il posto del disordine (2009).

Il secondo termine, oltre a “liberale”, utile per tracciare un breve profilo di Boudon è appunto “francese”. Boudon è stato il meno francese tra i grandi sociologi d’oltralpe: affascinato dalla lettura di un libro del metodologo Paul Lazarsfeld The language of social research, capitatogli per caso tra le mani nella biblioteca di Rue de l’Ulm a Parigi, decide di fare uno stage presso l’Università della Columbia («Revue européenne des sciences sociales», Tome XXXIX, 120, 2001, pp. 5-30). In quel luogo Lazarsfeld e Merton dirigevano il Bureau of Applied Research, fucina di studiosi come Seymour M. Lipset (sociologia politica), Philip Selznick e Alvin Gouldner (sociologia dell’organizzazione e della burocrazia), Lewis Coser (storia del pensiero sociologico), Peter Blau (mobilità e stratificazione sociale), Amitai Etzioni (sociologia dell’organizzazione e socio–economia). In tale contesto Boudon apprende un ethos scientifico e uno stile di ricerca che non lo abbandonerà mai nel corso della sua carriera intellettuale: teoria e ricerca devono crescere insieme e compito del sociologo è innanzitutto fornire buone spiegazioni e descrizioni dei fenomeni sociali.

Avversario giurato di ogni sociologismo che annulla il ruolo proattivo del soggetto agente, nemico acerrimo del linguaggio oscuro dei maître à penser, instancabile critico della narrazione seduttiva ma priva di rigore analitico, Boudon è perfettamente ricordato dalle sue stesse parole: “C’est pourquoi sans doute, une fois devenu sociologue, je me suis arrimé au principe que la sociologie n’est faite ni pour séduire ni pour influencer, mais pour Éclairer” (ivi, 28).