È difficile ritagliare alcune immagini, tra le tante, per raccontare almeno un poco del rapporto strettissimo che ha legato Ezio Raimondi al Mulino. Tutti coloro che con lui hanno lavorato apprezzandone il garbo quasi prima dell’erudizione possono raccontare almeno un episodio per descriverne la statura morale e intellettuale. Anche chi non ha avuto la fortuna di averlo come professore può farlo, citando ad esempio il modo straordinario con cui quest’uomo coltissimo sapeva ringraziarti di un lavoro che in realtà era lui ad avere svolto per te. Ma, come lui stesso disse una volta proprio al Mulino, in un incontro in cui seppe raccontare come nessun altro i primi anni della rivista e della casa editrice, è sempre difficile “adattare i pezzi di anfora che sono rimasti del passato e si rischia di inventare una figura diversa da quella che fu in realtà”. Se era difficile per lui, che per decenni ha ricoperto incarichi fondamentali, a partire dal ruolo di presidente del consiglio editoriale, si immagini quanto può esserlo per altri. Eppure anche quella volta Raimondi, che concluse il suo splendido racconto quasi scusandosi per un eccesso di autoreferenzialità di cui non c’era traccia, seppe dare a chi lo ascoltava parole bellissime, alte ma sempre chiare e al posto giusto, annullando in partenza qualsiasi tentazione celebrativa, trattandosi allora dei cinquant’anni dell’editrice.

Oggi, che la sua casa editrice si appresta a compierne sessanta, a quell’incontro ho ripensato, dopo avere appreso della sua morte. Del professor Raimondi, quale per molti di noi sempre è stato e sarà, indipendentemente dal grado di confidenza e di amicizia che ci ha legati a lui, resta fortissimo il rapporto con una storia senz’altro irripetibile che, per richiamare le sue stesse parole, “senza fare mitologie localistiche, sarebbe stata difficile in un’altra città”. Sono gli anni dell’immediato dopoguerra, quando finito da poco il tempo degli esami e delle interrogazioni si discute senza pudore di destino e di cose decisive e finali. Quasi ogni sera, per di più a cena (“riunioni? Per la verità facevamo soprattutto cene”, è una delle battute più note sulle origini del Mulino), giovani legati da un’amicizia sincera e destinata a durare a lungo si incontrano all’insegna di una grande vivacità intellettuale. Cattolici, comunisti, liberali (serve forse citare Nicola Matteucci?), mescolano insieme le cose e le competenze, senza che mai vi sia a priori un’opzione per una parte rispetto a un’altra. Alcuni, Raimondi in testa, devono per forza trovare tempo per un’occupazione che dia loro qualche base economica, ma sempre tutti restano incollati a un’idea sincera di progresso, quella parola fuori moda che letta oggi sembra assai poco in sintonia con l’attuale idea di crescita. A partire dalla scuola e dalla formazione, innanzitutto. E spaziando dalla critica letteraria, alla filosofia, alla storia delle civiltà.

Così, passare in meno di tre anni da una rivista ai libri è automatico. Ma sempre ricordando che, al di là delle singole specificità, è la società a dover restare il punto di riferimento di ogni esperienza culturale, “una sorta, se non di verifica, di controllo e di rapporto senza il quale la disciplina non assume la sua concretezza e la sua forza”. Con quello spirito e quegli ideali, al Mulino descritto da Piovene nel suo Viaggio in Italia arrivarono i primi libri, inclusi gli autori della grande tradizione sociologica americana.

A quel gruppo di amici che trattava di Gramsci e di Lukàcs davanti a un piatto di pasta anche oggi conviene guardare, ricordando ciò che di buono sessant’anni di libri al Mulino hanno dato: buone idee per buone riforme. Se i riformisti cercano di fare le riforme, ricordava Raimondi, “i nostri libri hanno cercato di produrre processi per aiutare a pensare in modo più libero e aperto nel bene di qualcuno, identificato soprattutto con i più giovani, senza che si facesse un mito del più giovane, ma considerandolo come un destinatario e un portatore di un possibile rinnovamento”. Potrebbe sembrare poco, ma no lo è. Ed è quanto al Mulino cerchiamo di fare ancora oggi.

[ Questo articolo è stato pubbicato su "la Repubblica. Edizione Bologna", il 20.3.2014]