È tornata. Forse non se n’era mai andata. Forse aveva sonnecchiato per cinquant’anni, sotto i riti e le finzioni dell’Italia democristiana: salvo esplodere inconsulta negli anni di piombo, frettolosamente chiusi con il sacrificio di pochi e la corale deprecazione di tutti. Forse è andata accumulandosi giorno dopo giorno, come polvere pirica, dinanzi alle telecamere dell’Italietta berlusconiana: nelle interviste-panino dei telegiornali – maggioranza-opposizione-maggioranza – dove l’unica regola è colpire duro, meglio se sotto la cintura, salvo sempre il rispetto dei tempi televisivi; oppure nei talk show, dove persino gli esponenti del Partito dell’Amore sono costretti a concentrare in venti-trenta secondi i quotidiani due minuti d’odio. È la violenza, bellezza. Verbale, ma anche fisica: altrimenti che gusto c’è?

Sarà la crisi, di cui solo oggi avvertiamo tutte le conseguenze, o l’annuale appuntamento con la dichiarazione dei redditi, o questa primavera vulcanica e malmostosa. Ma che tiri una brutta aria, nei palazzi della politica come nelle nostre vite, non occorre essere il presidente del Censis per capirlo. Io, per esempio, l’ho capito improvvisamente qualche giorno fa, alla Stazione Centrale di Milano: uno dei luoghi più lividi, specie dopo l’ultimo restyling, di questo livido paese. Un gruppo di persone si accalca sulla scala mobile; alcuni di loro discutono ad alta voce. Improvvisamente qualcuno perde l’equilibrio e cade all’indietro, travolgendo gli altri. Una donna grida: «Il mio bambino, ridatemi il mio bambino». Poi tutti si rialzano come se niente fosse, il bambino abbraccia la madre. Cessato allarme: solo una piccola prova della fine del mondo.

Se dovessi spiegare a un visitatore marziano il clima di queste settimane, credo che basterebbe fargli vedere tre scene, solo un po’ più note della precedente. Prima scena, interno giorno. Dopo mesi di colpi di spillo, si consuma in diretta, su Sky, la madre di tutte le rotture, fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Benché si tratti pur sempre del Presidente del Consiglio e del Presidente della Camera, nessuna catarsi, niente rappacificazione: una guerriglia che si prolungherà, probabilmente, per il resto della legislatura. Seconda scena, esterno notte. Durante la finale di Coppa Italia fra Roma e Inter, Francesco Totti detto il Pupone, il testimonial un po’ paraculo di tanti spot Vodafone, rincorre per un’intera metà campo Mario Balotelli, reo soltanto di perder tempo dribblando, lo scalcia da dietro, poi lo colpisce ancora a terra, con un calcetto in testa.

Terza e ultima scena, esterno notte: la stessa notte, poco lontano di lì. Nella capitale percorsa da teste calde in cerca di vendetta, un giovanotto di venticinque anni esce di casa in moto, con un amico in stampelle sul sellino, ma soprattutto con una maglietta rossa come quella della Roma, e viene scambiato per un ultrà da una pattuglia di polizia in servizio di ordine pubblico. Il giovanotto finisce in carcere con la testa rotta, e le accuse di oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale; ci resterà una settimana buona, come il povero Stefano Cucchi. A differenza di lui, però, uscirà dalla porta principale e con tante scuse: un intero quartiere ha filmato la scena, mandandola a «Chi l’ha visto?», e quindici persone si sono offerte di testimoniare a suo favore. Ora pare che un poliziotto pagherà per tutti: meno male, stavolta abbiamo pure il capro espiatorio.