È indubbio che la brutale invasione della Federazione Russa in Ucraina ci abbia messo di fronte a una vera e propria crisi epistemologica, oltre che diplomatica e umanitaria, nella comprensione delle dinamiche politiche e sociali sorte nel territorio dell’ex Unione Sovietica. Una crisi che nasce dalla nostra incapacità di guardare alla graduale diversificazione che ha avuto luogo nel corso degli ultimi trent'anni di "transizione post-sovietica".

Immaginando la cartina dell'ex regione sovietica, possiamo già identificare la diversificazione dell'evoluzione politica vissuta dai 15 Stati nati dopo il crollo dell'Unione. In termini di integrazione regionale, ad oggi non esiste alcuna organizzazione internazionale che possa vantare di comprendere sotto la propria egida tutti i Paesi della regione: ad esempio, gli Stati baltici (Lituania, Lettonia ed Estonia) sono diventati membri a pieno titolo dell'Unione europea nel 2004, mentre più recentemente Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Armenia hanno aderito all'Unione economica euroasiatica, a guida russa. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che negli ultimi decenni i rapporti tesi tra Ue e Russia, da un lato, ed ex Repubbliche dell’Urss e Russia, dall'altro, hanno portato anche alla formazione delle cosiddette "aree grigie" d’Europa, ossia a quelle dispute territoriali che hanno caratterizzato la storia recente dello spazio post-sovietico (e che in alcuni casi affondano le loro radici già ai tempi della Perestrojka). In quest’ottica, oggi lo spazio post-sovietico non ospita solo 15 Stati indipendenti riconosciuti dalla comunità internazionale, ma anche 6 Stati de facto: Transnistria in Moldova; Nagorno-Karabakh in Azerbaijan; Abkhazia e Sud Ossezia in Georgia; e le più recenti Repubbliche Popolari di Donec’k e Luhans’k in Ucraina.

Queste dinamiche ci invitano a riflettere su come a trent'anni dal crollo dell'Urss non vediamo ancora emergere un chiaro ordine post-sovietico, cioè una dimensione politica e un percorso condivisi dall’intero spettro degli Stati post-sovietici. Anche per questo motivo, già nel 2008, dopo l'inizio della guerra russo-georgiana nell'Ossezia meridionale, nel dibattito pubblico e politico gli osservatori internazionali erano giunti a dichiarare la “fine dell'era post-sovietica”, ossia l’esito disatteso di quelle aspettative occidentali volte a pensare la regione come coinvolta in un periodo comune di transizione dall'era comunista al sistema liberal-democratico. Non a caso, oggi, all’alba del terzo decennio degli anni Duemila e di una nuova guerra nel cuore dell’Europa, possiamo invece osservare l’emergere di una “nuova situazione geopolitica” europea, laddove, “la visione di un’unica Europa, che segue le dinamiche del processo di integrazione dell’Ue a Ovest e al centro del continente, e una decisa transizione post-sovietica a Est”, sembra aver perso la sua influenza, lasciando il passo a idee e visioni multiple e divergenti di "Europa".

Per comprendere i motivi che stanno alla base di questa inaspettata evoluzione dello spazio geopolitico europeo (e, in una prospettiva più ampia, eurasiatico) è importante, innanzitutto, partire dalla reiterata negazione da parte del Cremlino della soggettività e dell’autonomia degli attori geopolitici post-sovietici: il caso dell’Ucraina va visto cioè nel più ampio spettro degli sviluppi politici post-sovietici. Nel quadro di una comprensione delle radici profonde del comportamento assertivo di Mosca in seguito agli eventi che si sono verificati a partire dalla rivoluzione di Piazza dell’Indipendenza, in ucraino Maidan Nezalezhnosti, a Kiev a partire dal novembre del 2013, è essenziale comprendere come sin dalla sua nascita, nel 1991, la regione sorta dalle ceneri dell’Urss abbia rappresentato al tempo stesso per la Federazione Russa una sfera d’interesse vitale per strutturare la propria identità politica post-imperiale e post-sovietica, e una difficile sfida per ricostruire il proprio ruolo di potenza globale – soprattutto, per via della graduale diversificazione delle posizioni assunte dagli attori politici dei 14 neo-Stati indipendenti nello scacchiere geopolitico europeo ed eurasiatico.

Non a caso, nella tradizione politica russa d’età post-sovietica, sin dagli anni Novanta è stato coniato un termine specifico per riferirsi agli Stati successori dell’Unione Sovietica nella loro totalità: l’"Estero Vicino" (blizhnee zarubezhe, in russo) è una nozione politica sviluppata dalle prime generazioni di diplomatici post-sovietici che riflette la pesante eredità storica dell’esperienza territoriale russa per l’odierna Federazione, definendo il ruolo privilegiato dell’ex regione imperiale e sovietica per la definizione delle linee di politica estera del Paese. Significativamente, il termine non è utilizzato negli altri Stati successori, che di norma si propongono di definire i propri rispettivi interessi nazionali in maniera autonoma e multivettoriale.

In questo quadro possiamo comprendere come le politiche sviluppate nel corso degli anni Duemila sotto la guida dell’attuale presidente Vladimir Putin (2000-2008; dal 2012 in poi), e durante l’interregno di Dmitrij Medvedev (2008-2012), siano sempre state in linea di continuità con il processo di rielaborazione della tradizione politica post-sovietica russa degli anni Novanta: le diverse generazioni di diplomatici russi hanno sempre visto nella prospettiva di una graduale integrazione degli Stati successori dell’Unione Sovietica il principale obiettivo tra le priorità regionali (e globali) della politica estera russa.

Tuttavia, è evidente come le strategie adottate dal Cremlino per rispondere a questi obiettivi siano notevolmente mutate nel corso degli ultimi decenni: se nei primi anni Novanta la posizione moderata della Federazione Russa vedeva nella Comunità degli Stati indipendenti sorta all’indomani del crollo dell’Urss la sede del dialogo multilaterale con gli altri Paesi post-sovietici, già dalla fine degli anni Novanta iniziava a emergere una posizione più aggressiva e competitiva nei confronti dei progetti di allargamento e integrazione promossi dall’Ue e dalla Nato nella regione, portando a una graduale diversificazione delle strategie di influenza. In particolare, la questione relativa alla presenza di minoranze russe e russofone negli Stati successori dell’Urss è diventata sempre più centrale all’interno del discorso politico russo, assumendo un significato fondamentale in particolare negli anni Duemila – laddove la "difesa delle comunità di lingua russa" in Ucraina è diventato uno dei capisaldi tra le motivazioni addotte dal Cremlino per giustificare il proprio intervento in Crimea e nel Donbas.

Alla luce di queste riflessioni, possiamo comprendere, in primo luogo, come, all’interno della visione geopolitica russa della regione post-sovietica, l’Ucraina perda la sua legittimità come attore politico indipendente, la cui sovranità territoriale è messa ancora una volta oggi in dubbio dal Cremlino. In secondo luogo, possiamo poi intuire come la cosiddetta "crisi ucraina" abbia in realtà rappresentato il culmine di un processo di lunga durata, che ha portato così alla luce irreversibili linee di frattura nel rapporto tra la Federazione Russa e l’Ucraina, in primo luogo, e di riflesso tra la Russia e l’Unione europea.

La guerra in Ucraina ci riporta, quindi, all’interno di divergenti visioni dell’idea di spazio geopolitico, in primo luogo, post-sovietico e, in seconda battuta, europeo: queste ultime sono da sempre oggetto di costante elaborazione da parte dei diplomatici russi, e nel corso degli ultimi otto anni seguiti all’inizio del conflitto sono state significativamente oggetto di una profonda rivisitazione. Non a caso, negli anni che sono seguiti alla guerra nel Donbas iniziata nel 2014, sia all’interno del dibattito intellettuale russo che tramite la voce dei principali alleati politici dell’odierna Federazione, la nozione politica di Estero Vicino è tornata al centro dell’attenzione per via della necessità di una sua riconcettualizzazione. Paradossalmente, all’indomani del graduale isolamento diplomatico vissuto dalla Federazione Russa nel corso degli ultimi otto anni, l’idea dell’Estero Vicino come spazio prioritario della politica estera russa veniva emblematicamente "rovesciata": influenti esponenti della vita politica e intellettuale russa iniziavano a guardare al più ampio impatto dell’idea di Estero Vicino sulle linee di politica estera del Paese, e a come quest’ultimo rischiasse di diventare un "peso" per le ambizioni della Federazione a ergersi a potenza globale.

Non a caso, nell’influente report pubblicato dallo storico Aleksej Miller e dal politologo Fedor Lukjanov nel 2016, dal titolo emblematico Detachment instead of Confrontation: Post-European Russia in Search of Self-Sufficiency, si sottolineava come l’eterno quesito esistenziale della nuova élite politica post-sovietica, ossia "che cosa significa essere una grande potenza?", non potesse più trovare una sua risposta nell’Estero Vicino, laddove “vani sono stati i piani della Russia di diventare un centro di integrazione indipendente nello spazio post-sovietico”.

Al contempo, riflessioni simili provenivano anche dalla Cina, nuovo alleato strategico della Federazione. In un articolo del marzo 2021, Zhao Huasheng, collaboratore dell’influente think tank russo Valdai Discussion Club, si concentrava proprio sulla necessità di rivedere la posizione dell’Estero Vicino nelle linee di politica estera russa, laddove la regione “è non soltanto una risorsa strategica per Mosca, ma in circostanze sfavorevoli è un anche un fardello” rilevante per le sue ambizioni da potenza globale.

L'aggressione dell’Ucraina – pericolosa in termini politici e disastrosa in termini umanitari – sembra andare contro la pluralità di voci emersa nel corso degli ultimi 8 anni all’interno del più ampio spettro politico della Federazione Russa. È chiaro che i suoi esiti avranno un forte impatto, oltre che sul destino della regione post-sovietica, anche e soprattutto sulla futura direzione della Russia: sul possibile superamento – a trent'anni dall’inizio della transizione – dei tentativi di ricostruire un’identità politica e territoriale di marca imperiale all’interno di uno spazio post-sovietico polifonico e plurale.