È tornata in campo, tiepidamente, la storia della contrapposizione fra politici e tecnici, a volte con la solita citazione della frase attribuita a De Gasperi: «Il politico guarda alle prossime elezioni, lo statista alle prossime generazioni». A prescindere dal fatto che in quella frase si parla di statisti e non di tecnici, in tutto questo dibattito c’è una bella quota di ipocrisia (e passi), ma soprattutto una sottovalutazione dei termini complessivi del problema.

Partiamo da una constatazione semplice: lo statista guarderà senz’altro al futuro, ma se poi perde le elezioni non lo costruisce. De Gasperi ne era perfettamente consapevole e infatti fece molte azioni anche decisamente «politiche» per non perdere l’amplissimo consenso che si era costruito con un partito come la Dc postbellica, che volle, nonostante opposizioni interne, un partito pigliatutto.

Il problema, allora, non è la presunta contrapposizione che esisterebbe fra politici (leggasi: uomini di partito) e tecnici (leggasi: persone che antepongono o dovrebbero anteporre la loro credibilità professionale alla ricerca del consenso). Ciò che divide le due categorie non è una diversa logica, ma un diverso percorso di analisi dei problemi in campo. Parliamo naturalmente del caso in cui da una parte e dall’altra ci siano gli strumenti e le capacità per affrontare questi percorsi, il che, nell’uno e nell’altro caso, spesso non succede.

La questione di fondo è la possibilità o meno di mettere il Paese davanti alle responsabilità che derivano dalla situazione in cui si trova. Il cosiddetto tecnico pensa in genere che sia poco sensato mistificare la durezza dei problemi, visto che prima o poi essa si imporrà da sola. Il cosiddetto politico pensa invece che la pubblica opinione in generale non sia in grado di misurarsi con una realtà sgradevole e che dunque sia opportuno fargliela accettare come la famosa pillola, cioè rivestita di un bel po' di zucchero. Nell’uno e nell’altro caso a farla da padrone è quello che si potrebbe chiamare il tempo della politica, che è considerato breve, anzi a volte brevissimo: per il tecnico questo fa sì che, per cavarcela con una battuta, le bugie abbiano le gambe corte; per il politico ciò significa che, guadagnato il consenso per il round immediato, si potrà lavorare nella maniera opportuna per quell’intervento amaro che non è stato dichiarato a priori.

Tutto questo non avviene però in una atmosfera controllata, bensì davanti a una opinione pubblica che non solo non può essere considerata un semplice arbitro fra i due, ma che è preda di un ribollire di tifoserie interessate a far pendere la bilancia a favore di uno dei contendenti, ma anche di nessuno dei due, perché il caos tutto sommato è anch’esso un fattore su cui si può puntare.

A metà Ottocento, quando ci fu una certa impennata contro la politica delle fazioni, si pensò che la faccenda potesse essere risolta col ricorso alla scienza, soprattutto quella dei numeri (la statistica). Dati «oggettivi» avrebbero costretto a ridurre, se non ad annullare, gli scontri fra politici e tecnici, perché la «verità» poteva essere servita alla pubblica opinione come arma per dirimere le questioni.

Oggi a quella illusione non crediamo più. Nel mondo delle bufale, delle notizie inventate e prese per buone, delle tifoserie che non credono nemmeno all’evidenza, è estremamente arduo pensare che si possano costruire delle basi per costringere le forze in campo, le si etichetti come politiche o come tecniche conta poco, a misurarsi su problemi condivisi almeno nelle loro strutture portanti. Tuttavia fermarsi a questa constatazione è ipocrita e serve solo a lasciare le cose come sono.

Il fatto è che questo mondo di «post-verità» è ampiamente sostenuto dai media, che da un lato si stracciano le vesti dando tutte le colpe alla Rete, ma dall’altro danno ampio spazio ai vari sacerdoti delle tifoserie in campo (con la comoda scusa che fanno notizia e che escluderli sarebbe censura). Ma così facendo si sta distruggendo il terreno comune del confronto politico in senso forte, che è quello che ha per oggetto la soluzione dei problemi con i tempi (non brevi) e le fatiche (non piccole) che ciò comporta.

Senza la costruzione di un bagaglio di elementi condivisi nell’analisi della situazione che ci troviamo davanti non vi può essere quel confronto che è inevitabilmente insieme tecnico (le soluzioni da scegliere devono essere plausibili) e politico (bisogna che quelle soluzioni incontrino il consenso necessario a legittimarle). È un contesto che va costruito, ma alla cui costruzione oggi stanno lavorando, purtroppo, davvero in pochi.