Questa mattina abbiamo saputo della scomparsa di Angelo Agostini. Qui al Mulino era di casa, soprattutto per il suo lavoro su "Problemi dell'informazione", la rivista fondata da Paolo Murialdi nel 1976 a cui Angelo ha lavorato da sempre. Dal 1999 a oggi ne è stato lui stesso direttore, scrivendoci sino all'ultimo. Ma anche alla nostra rivista ha regalato qualche articolo, come quello sui rapporti tra media e politica che gli chiedemmo nel 2006 e che qui ripubblichiamo. 

 

In quel pezzo, da studioso attento al mondo reale quale egli era, scriveva a proposito di Grillo: "Nel caso del comico genovese c’è l’evidente capacità di costruire, mantenere e rinsaldare un rapporto con un pubblico di spettatori e utenti che riescono anche a sentirsi cittadini". È un articolo di otto anni fa. Ci piace ricordarlo così.

 

Che «Porta a porta» sia la terza Camera della Repubblica è una delle battute più infelici e allo stesso tempo meglio riuscite nella storia dei rapporti tra politica e televisione in Italia. Certo, per ridimensionarla, si potrebbe anche aggiungere che visti i suoi orari, la trasmissione di Bruno Vespa potrebbe essere più opportunamente considerata la camera da letto della Repubblica, con il suo inevitabile corredo di litigate, sfuriate, amori, incroci, inganni, tranelli e soddisfazioni più o meno simulati. Qualcuno ha osservato, non a torto, che in seconda o terza serata la gente normale dorme.

Chi si sveglia presto al mattino, chi lavora e non soffre d’insonnia, dedica quelle ore al riposo piuttosto che alla rimessa in scena del dibattito politico svoltosi nel corso della giornata. Ma tant’è. Deve certamente esistere un pubblico solido e costante di aficionados della politica spettacolarizzata televisivamente. Che sia d’addetti ai lavori o di supporter, in fin dei conti non cambia molto. I numeri stanno lì a dimostrare che lo spettacolo, se non gradito (perché questo non lo sappiamo), è certamente seguito. La battuta è tuttavia sicuramente infelice perché riduce il tema, non facile e non secondario, dei rapporti tra politica e televisione alla personalità dei singoli conduttori e dei loro programmi. Sarebbe in questo caso la sicura misura dell’officiante, la certezza stessa di una messa in scena che risponde a canoni dati, obbligati e rispettati.

Per quanto talvolta accusato (nemmeno troppo duramente) di assecondare il centrodestra piuttosto che l’opposizione, Vespa mantiene comunque uno stile: nessuna domanda fuori posto; pochi imbarazzi e quasi nessuna puntura per gli ospiti; tempi abbastanza ampi per potere recitare il proprio numero; scelta accurata degli interlocutori, in modo che gli opposti estremismi si possano conciliare nella sua rassicurante presenza; il giusto condimento di cosce lunghe, frizzi, lazzi, risotti e tavolini di ciliegio; l’opportuna misura di scoop e annunci di candidature o rinunce dati in diretta; e poi, senza dubbio, risulta più rassicurante anche un confronto tra Oliviero Diliberto e Ignazio La Russa, piuttosto che il troppe volte esibito modellino della casa di Cogne.

Se questo metro d’analisi fosse valido, dovremmo però misurarci soltanto sui caratteri e sulle psicologie d’un pugno di giornalisti televisivi negli ultimi venticinque anni. Perché, in fin dei conti, dagli inizi dell’infotainment i nomi sono più o meno sempre gli stessi. Lasciando a parte il Grande Padre Maurizio Costanzo, ormai sempre più marginale, i tratti e le individualità stanno lì, ben noti a ciascuno, come le fotografie dei parenti sugli scaffali di casa. Meglio la sulfurea vis polemica, abbondantemente condita di provocazioni intellettuali, di Giuliano Ferrara? O piuttosto la perfetta tempistica televisiva di Enrico «Mitraglia» Mentana? O non è invece preferibile il vecchio stile agitatorio di Michele Santoro (quando sarà finito l’ostracismo)? È più intrigante lo stile americano, pulito, ma non ipocritamente neutrale di Giovanni Floris, o l’intermittente carica piazzarola di Gianfranco Funari? Su tutti loro, e sui rispettivi programmi, «Porta a porta» troneggia per durata e inossidabilità della formula da oltre un decennio. Eppure sarebbe davvero un errore metodologico ridurre il tema alle singolarità, alle peculiarità dei conduttori e dei loro programmi. È per questa ragione che risulta mistificante credere all’esistenza di una terza Camera della Repubblica. Se una Camera è l’insieme di procedure concordate per stabilire rappresentanza, agenda, ordine dei lavori, diritto di voto, confronto tra legislativo ed esecutivo; se è tutto questo (come da manuale di diritto istituzionale), allora il cinismo della boutade si autocondanna al cestino della carta straccia della storia minore. Eppure, nonostante tutto, per qualche verso quell’ironia ancora tiene. Basta allargare lo spettro prospettico appena fuori dalla quotidianità del dibattito politico. Basta riconsiderare, almeno un poco, la storia politica recente. Basta rimettere alcuni fattori nella loro sequenza temporale. Il nodo della complessità innescata dalle relazioni tra politica e televisione in Italia può emergere, tutto sommato, facilmente nella sua chiarezza. A condizione che si tengano a mano tre temi decisivi: l’evoluzione dei modelli economici e produttivi della tv generalista a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta; l’imperiosa facilità con la quale alcune figure maieutiche si sono imposte sulla scena pubblica in epoca di conclamata e prolungata transizione; e infine (ma è questo il punto di fondo) la relazione dannatamente intricata tra la trasformazione sociale del Paese e i modi con i quali la politica ha potuto (o non saputo) rispondervi.

Il primo tema è il più semplice, perché universalmente conosciuto. La televisione italiana contemporanea s’è sviluppata non solo e non tanto nel confronto tra un polo di cosiddetto servizio pubblico e un polo commerciale, ma s’è strutturata ben più a fondo su un solo modello condiviso da entrambi i grandi network. È un duopolio, ma è monopolio sotto il profilo dei modelli economici e culturali. È un duopolio monopolistico. Non essendosi data storicamente qualunque alternativa al binomio incontrollato dell’emittenza via etere in chiaro, l’affermazione della pubblicità come principale risorsa economica del settore televisivo ha imposto una trasformazione di fondo nei criteri di programmazione e creazione dei contenuti, anche giornalistici. Ho già avuto modo di usare una delle più lucide riflessioni su questo argomento, ma la ripropongo ancora perché non ha perso nulla della sua validità. Osservava infatti giustamente Fausto Colombo come dentro questo frame, che è politico, culturale e produttivo, «quello di cui immediatamente non ci si avvede è che mettere al centro la pubblicità significa modificare il concetto stesso di prodotto televisivo, e quindi cambiarne la funzione. Il pubblico diviene oggettivamente il centro del processo, non più il destinatario del prodotto. Si tratta di un fenomeno nuovo nel nostro Paese, in queste proporzioni, anche perché quel pubblico viene identificato non tanto per i target differenziati che popolano il mondo del consumo, quanto piuttosto con le audience oceaniche dei grandi prodotti massivi»1.

Detto diversamente (e anche senza considerare che la Rai continua a percepire un canone, oramai sempre più difficilmente giustificabile nei termini del servizio pubblico che si suppone possa ancora erogare), la pubblicità è l’anima stessa della televisione ancora dominante in Italia. A poco vale, ancora oggi, che i canali satellitari s’impongano con sempre maggiore forza. Nella televisione che tutti vedono, nella televisione della quale tutti parlano (e massimamente i giornali al mattino seguente), il criterio che conta è ancora quello: quanto pubblico hai fatto, a quanto puoi essere venduto agli inserzionisti pubblicitari. L’ultima edizione di Sanremo è lì, non troppo lontana nella memoria, per rammentare questa evidenza lapalissiana. Cambiano i tempi, cambiano le stagioni, cambia anche il pubblico televisivo e le sue abitudini di fruizione, ma Panariello viene crocefisso per non avere ripetuto gli ascolti dell’anno precedente, o dell’edizione di due, tre, quattro anni prima. E però, come per le canzonette dalla Riviera dei fiori, la legge vale nello stesso modo per Vespa, piuttosto che per Mentana: dimmi quanti ascolti fai, ti dirò quanto conti. Perché ciò che vale è il pubblico che porti a casa per potere vendere la pubblicità.

Ho già scritto, e non ho ancora visto ragione per cambiare idea, che «il duopolio monopolistico ha affermato in Italia una sola forma di televisione su tutte le altre possibili. Più a fondo che sui contenuti, quell’affermazione ha giocato a lungo e decisivamente sulle forme economiche dell’intero sistema dei media nel nostro Paese, imponendo la massificazione delle risorse pubblicitarie (e quindi dell’audience) come unico modello imprenditoriale, e innervandosi inestricabilmente nelle vicende e nei destini del sistema politico. La stessa possibilità di concepire ancora una nozione di servizio pubblico radiotelevisivo ne è uscita a pezzi, tanto nella versione “soggettiva” (chi lo fa) che in quella “oggettiva” (che cosa si fa)»2. È dunque logica conseguenza che il modellino della casa di Cogne valga giornalisticamente molto più che un’inchiesta sulle assunzioni preelettorali in Sicilia, anche a prescindere dalla maggiore o minore opportunità del tema politico. È ovvio che valga più una litigata a calci e pugni tra Katia Bellillo e Alessandra Mussolini, che non un viaggio attento e circostanziato nelle strutture della sanità pubblica e privata tra Bolzano e Palermo. Ovvio, scontato, normale. E così anche i risotti cucinati per la tv, i contratti sottoscritti davanti ad una telecamera, i golfini di cashmere e i vezzosi portaocchiali al collo. È molto più curioso, piuttosto, che un’intera generazione politica si sia piegata a queste logiche senza colpo ferire. È ben più sorprendente che sia invalsa per tutti un’equazione, sebbene sia stata dimostrata impossibile dalla storia: più ti vedono, più ne convinci; più ti ascoltano, più ti gradiscono.

Questo è il cortocircuito sul quale, singolarmente, ha riflettuto una cerchia assai esigua d’intelligenze politiche e analitiche. Che il modello della massificazione degli ascolti e dell’estensione militarizzata del controllo politico possa corrispondere in forme più o meno meccaniche ad una chiave di ottimizzazione dei risultati elettorali è infatti dimostrato come un falso dalla storia delle ultime elezioni politiche. Nel 1994 la prima affermazione del centrodestra non ha certo visto uno schieramento televisivo compatto a suo supporto. Nel 1996 l’Ulivo aveva sì e no qualche debole appoggio da RaiTre e la benevola equidistanza di RaiUno e Canale 5. Nel 2001 ricordiamo ancora gli editti d’epurazione seguiti all’affermazione della Casa delle Libertà, memoria tangibile dell’autopercezione d’avere giocato una campagna avendo le televisioni «contro», vero o falso che fosse. Insomma: massimizzare gli ascolti e aumentare i controlli non serve. È dimostrato. Eppure continuiamo a parlare della terza Camera.

Un poco più a fondo di questo argomento (in realtà abbastanza facile), vale la pena d’andare a scavare maggiormente nei prodromi, negli archetipi, nei modelli che sono andati depositandosi come repertorio dei modi possibili per mettere in scena la politica in televisione, magari in anni non ancora sospetti. Maurizio Costanzo, come s’è detto, ha insegnato a tutti. Funari ha aggiunto del suo, quanto a stili, linguaggi, presenza scenica.

Se però la memoria non m’inganna è un altro il momento nel quale s’inizia a comprendere che la politica può essere spettacolo in televisione, molto al di là di quanto non si fosse già iniziato a vedere con le prime comparse di uomini politici al di fuori dei loro ambiti tradizionali (chi non ricorda lo strepitoso segretario socialdemocratico Pietro Longo che gorgheggiava La vie en rose da Enzo Tortora a «Cipria » nel 1982?). Quel momento inizia a prodursi dal 1987. Mani Pulite è ancora lontana. L’eruzione vulcanica che mescolerà i confini tra la pratica politica e la frequentazione degli studi televisivi non è ancora alle viste. «Linea Rovente» parte il 10 novembre di quell’anno su RaiTre. L’impianto è simil-giudiziario. Un «imputato» ospite in studio in prima serata. Poi un film vagamente attinente. Quindi, in terza serata, il processo vero e proprio con tanto di televoto. Passano Pannella, Nicolazzi, Gheddafi e tanti altri. È l’inizio dell’ascesa di Giuliano Ferrara. Poi verrà «Il Testimone», quindi «Radio Londra». Aldo Grasso, nella sua Storia della televisione italiana, se n’è uscito con una frase fulminante, l’ultima di questa citazione: «La tecnica non cambia: Ferrara conciona, suda, ansima, sbuffa, suda ancora ma guai a toglierlo dai riflettori del palcoscenico. È il conduttore dall’occhio malandrino, dal sorriso perfido, dalla domanda trabocchetto e dalla pausa tranello. Inventa un modo nuovo di fare politica»3. Costa un poco ammetterlo, ma Giuliano Ferrara ha visto anni luce più in là del Giovanni Sartori di Homo videns. Lui, non ancora Elefantino, aveva già compreso allora che non è tanto la presenza scenica, non è la capacità di stare sotto i riflettori dell’uomo politico a contare.

Non è lo sforzo di sembrare umani, d’avvicinarsi al telespettatore, all’elettore, all’uomo comune, ciò che conta, come legioni di massmediologi hanno tentato di convincere il mondo dal dibattito tra Kennedy e Nixon in poi (e ci sono quasi riusciti). No. Ferrara ha compreso che la politica poteva essere una nuova forma di spettacolo. E che lo spettacolo televisivo aveva trovato una classe intera di nuovi protagonisti.

Intuizione profetica, visto l’approssimarsi della nuova stagione che avrebbe reso la politica quotidianamente spettacolare per moltitudini d’italiani. Intuizione preveggente perché vedeva nello spettacolo serale televisivo una delle forme più nuove, originali ed efficaci dell’azione politica quotidiana. Nessuno, né il Santoro più profondo interprete degli umori delle sue piazze, né il Gad Lerner più attento ai sentori delle platee all’Umanitaria di Milano in «Milano, Italia», riuscirà mai a raggiungere quella lucida, disincantata e spregiudicata consapevolezza. L’uno e l’altro, e con loro Gianni Riotta, Enrico Deaglio, e a maggior ragione i classici Enzo Biagi, Sergio Zavoli e Milena Gabanelli, si fermeranno ciascuno un attimo prima. Giornalisti prima di tutto.

Dunque attenti ai fatti, rispettosi delle opinioni, abili a metterle una contro l’altra, ma pur sempre ancorati alla cronaca. Ferrara no. Lui si butta, si getta, si lancia a capofitto. S’inventa, per l’appunto, modi nuovi di fare politica. E non è politica-spettacolo, è proprio lo spettacolo della politica, che cambia i luoghi, i modi, i linguaggi della politica stessa e insieme cambia la televisione. Poi, più avanti, nel 1996, ritroverà anche gli strumenti della carta stampata, inventerà «il Foglio», un «quotidiano attivista». Ma quello della carta è un mondo molto meglio esplorato. Edoardo Scarfoglio nella storia del giornalismo italiano e poi Eugenio Scalfari, Paolo Mieli, Ezio Mauro hanno avuto corazzate, incrociatori, intere armate per solcare i mari delle tradizioni dei rapporti tra politica e giornalismo, rinnovandoli, cambiandoli, sconvolgendoli. In televisione, comunque, il primo è stato lui. Non a caso è poi stato ministro (sia pure effimero) per i rapporti con il Parlamento nel primo governo Berlusconi. Altro che terza Camera: dagli studi televisivi direttamente alle Camere che contano e per davvero.

I modi nuovi della politica, poi seguiti da tanti altri. Quella piccola scintilla accesa da Ferrara sul finire degli anni Ottanta lascia vedere oggi, come un periplo totalmente dispiegato, quel che accadde in seguito. La prova generale c’era già stata soltanto qualche mese prima. Il 26 settembre del 1991 s’incontrano due campioni: Maurizio Costanzo, maestro dell’intrattenimento informativo; Michele Santoro, inventore della trasposizione dei modelli assembleari sotto forma di televisione. È la diretta «per Libero Grassi», raro esempio d’impegno civile a proposito di uno dei temi più negletti dall’informazione in tv. Ci vorranno oltre quindici anni, prima con una puntata di «Report» di Milena Gabanelli, parossisticamente oggetto di richieste di rivalsa, poi con l’inchiesta di Neri e Pedrazzini, venduta in oltre centomila copie in libreria (primo esempio tangibile di televisione che corre lungo altri canali), per avere qualche cosa di simile: la mafia come tema portante della programmazione televisiva.

Quel giorno, comunque, il segnale arriva: la televisione può essere anche impegno e testimonianza civile. Cinque mesi dopo quell’appuntamento televisivo antimafia, scoppia la bufera e quei toni d’impegno riusciranno a durare per un paio d’anni. Se ne avvantaggeranno anche personaggi improbabili come Paolo Brosio, macchietta maltrattata da Emilio Fede davanti al Palazzo di Giustizia di Milano, sempre sull’orlo di finire travolto dal tram.

Ma nel mondo dell’approfondimento in tv è una vera e propria rivoluzione. Paolo Mieli l’ha spiegato più d’una volta. A  «Problemi dell’informazione», in una lunga intervista, l’ha raccontato così: «ma come si fa a non riconoscere almeno oggi che la televisione in quegli anni stava cambiando radicalmente? Si ricorda che cos’era Samarcanda di Michele Santoro nel 1992? Samarcanda era più importante di un comitato centrale del Pds. La televisione era la scatola dentro la quale avveniva la politica. E avveniva davanti a milioni di persone. Noi ne abbiamo preso atto»4. La televisione era la scatola dentro la quale avveniva la politica. Già compresa da Ferrara, con diabolica intuizione qualche anno prima, quella verità si dipana sotto gli occhi di qualunque osservatore dopo il fatidico febbraio del 1992. «Milano, Italia» parte nel giugno di quell’anno. «Il rosso e il nero» prende l’avvio nel gennaio del 1993. L’apoteosi arriva con le dirette del processo Cusani nel 1994.

Che altro aggiungere? La politica s’è trasferita per alcuni anni dentro la scatola televisiva. E per forza: non aveva altri luoghi dove dispiegarsi, non aveva altri strumenti per farsi sentire. Tutti gli altri ambiti erano delegittimati: non il Parlamento, non le sedi dei partiti, neppure gli alberghi, residenze dei leader, come ricorda ancora oggi l’aggressione a Bettino Craxi davanti all’Hotel Raphael. La politica italiana era rimasta concretamente senza luogo, senza sedi. Per un periodo neppure troppo breve le è mancato fisicamente un ubi sonsistam. L’unico spazio è stata la televisione, che ha imposto naturalmente il suo pedaggio: la costrizione al reality show anzitempo. L’espressione disfatta di Arnaldo Forlani interrogato da Antonio Di Pietro davanti alle telecamere precede di molto Taricone nella Casa o Al Bano sull’Isola, e aveva ben altra consistenza drammatica e spettacolare. È proprio qui che s’innesca la reazione chimica. È qui che s’avvia la reazione nucleare che porta al deserto attuale.

Una politica senza luoghi e senza strumenti incrocia sulla sua strada una televisione che sta spiegando al vento le vele del suo modello portante: tutto, ma proprio tutto davanti alle telecamere. La vita politica in diretta tv, anzi: proprio in tv, dentro gli studi televisivi. «Chi l’ha visto?» e «Il grande fratello» sono perfettamente fungibili a «Porta a porta». È sufficiente che lo spettacolo abbia una qualche verosimiglianza con la realtà; poi può andare avanti da solo. L’essenziale sono gli ascolti, e con quelli gli introiti pubblicitari. Per un paio d’anni, tra il 1992 e il 1994, l’opinione pubblica mostra un interesse quasi spasmodico per le vicende politiche. Poi la passione s’affievolisce e quel che resta è genere, formato, convenzione. Giuliano Ferrara sparisce dagli schermi Rai e Mediaset, e solo molto tempo dopo riapparirà in una emittente di nicchia. Le corazzate, questa volta televisive, però non scherzano e prendono il mare. Arriva, siamo nel 1996, Bruno Vespa. E il mondo, quello dei rapporti tra televisione e politica, è già cambiato.

Dei modelli produttivi televisivi e delle ragioni per le quali, dopo qualche anno dall’avvio del suo programma, Vespa abbandoni il contratto da dipendente Rai per assumere una collaborazione esterna interessa qui poco o niente. È puro gossip. Il punto nodale sono piuttosto le ragioni per le quali la politica italiana s’adatta, quasi senza eccezioni, a questo modo di fare, se non è piuttosto un modo di essere. Lunghe e articolate sono le interpretazioni. Ma alla domanda sulle ragioni per le quali la politica italiana sembra avere preferito il terreno della televisione a quello del progetto, della mediazione e dell’amministrazione (con poche e brevi eccezioni), conviene per ora suggerire soltanto alcune brevi, sintetiche, risposte. Ce n’è una che tiene dietro alle analisi più sofisticate.

Citerò per tutte quella di Giuseppe De Rita, quando parla di una molecolarizzazione del tessuto sociale italiano5: quella frammentazione, quella parcellizzazione alla quale i grandi partiti di massa non hanno saputo rispondere, né in termini di progettualità, né in termini di comunicazione. Credo che De Rita abbia ragione. Quando la società italiana rivede profondamente la sua composizione di classe, quando s’afferma un ceto medio imponente per numeri, ma afasico nelle domande e nelle richieste politiche, s’impone anche parallelamente il bisogno del ceto politico di dialogare individualmente con ciascuno di questi atomi sociali dispersi lungo la penisola. Solo la Lega, forse, ha avuto un’intuizione aggregante, legata in qualche modo al territorio. È stata però quella una risposta pre-mediatica, non a caso legata più alle comunicazioni interpersonali che non ai canali di comunicazione di massa. Eppure quegli atomi, se non sono collegati ad un ambiente, a un luogo, a radici identificabili in un posto e una storia, che cosa restano? Telespettatori, per l’appunto.

Nessuno, non nella Rai del supposto pubblico servizio, tantomeno nelle emittenti commerciali nazionali e locali, s’è occupato di territorialità e regionalità se non in modo strumentale. I risultati sono qui, sotto gli occhi di tutti. Dopo un’espansione geometrica della stampa locale negli anni Ottanta, da più di vent’anni il sostrato essenziale dell’informazione cittadina, provinciale e regionale è diventato morta gora. Nel campo televisivo è il deserto pressoché assoluto. Nel frattempo, tuttavia, estinto il popolo dei fax, dissolta l’agorà mediatica e partecipativa che aveva accompagnato il grande repulisti tra il ’92 e il ’94, che cosa resta? Rimane, io credo, un grumo di memoria collettiva che alla bufera di Mani Pulite ha sicuramente associato il referendum sul voto di preferenza del 1991 e quello sul finanziamento ai partiti del 1993 come grandi momenti che sono riusciti a mettere insieme partecipazione personale e compartecipazione mediatica.

Ed è strano, è davvero curioso che quella memoria e quella consapevolezza allora così evidente siano state così velocemente espunte dal quadro delle analisi politiche. Se qualcuno se ne fosse ricordato, forse anche la stagione dei girotondi sarebbe stata letta in altra luce. Che Nanni Moretti una sera abbia un guizzo e se n’esca con una delle sue intemerate in Piazza Navona è un conto. Che da lì s’inneschino però processi impensati capaci di proiettare sulla scena politica nazionale timidi professori fiorentini è tutt’altro paio di maniche. Ed è soprattutto ben più complesso spiegare perché quel processo di apparente rinnovamento si sia spento tanto rapidamente. Viene da pensare che reggere l’assalto delle telecamere non sia proprio da tutti. Viene da credere che anche questo appartenga alla nuova professionalità politica.

Salvo pochi residui di quella stagione durata l’attimo d’un respiro, oggi non rimane più nulla. Difficile la questione: se sia più dura reggere alla sovraesposizione mediatica o al peso degli apparati. Però è un tema da registrare. Se non altro nei termini della psicologia individuale e collettiva del nuovo ceto politico, questa doppia esposizione ha apparentemente favorito una generazione allevata dentro le scuole di partito, ma capace nel contempo di passare le serate davanti all’obiettivo di una telecamera. Gli altri sembrano apparentemente liquefatti. C’è di che riflettere. E infine c’è un elemento sul quale ragioneremo davvero solo quando avremo totalmente digerito quest’ultima campagna elettorale, la più lunga e più brutta del dopoguerra. Che sia stata lunga è evidente, perché sia stata brutta lo è un po’ meno. Lunga è stata perché l’Unione l’ha lanciata per tempo e il governo gliel’ha concessa con i suoi affanni. Brutta è stata senz’altro perché in televisione non si sono visti in realtà né i campioni, né i temi: né la contrapposizione di due modi personalmente differenti d’interpretare la politica e il rapporto tra la politica e i cittadini, né (tantomeno) quegli argomenti, quegli approfondimenti che – come si suol dire – sono «più vicini alla vita quotidiana della gente».

Dopo tanti anni di politica fatta negli studi televisivi, sembra davvero che gli spin doctors dei due candidati abbiano giocato una partita tutta tra di loro, che ha escluso sia i telespettatori, che l’elettorato. Sembra insomma di avere visto la proposta di ricette preconfezionate che non hanno saputo trovare la lucidità necessaria per avere quel guizzo d’innovazione che, da solo, avrebbe potuto fare la differenza.

Da una parte c’è dunque quel modello televisivo, che è economico – mi ripeto – e perciò produttivo e culturale. Dall’altra c’è questa politica, incapace di trovare forme di dialogo e comunicazione, anche mediatica, con la società italiana. Una politica che è stata capace di sottrarre anche l’unica vera forma di rapporto sano e robusto con i cittadini: la possibilità di scegliere tra i candidati nel collegio, l’opportunità di poterli seguire, e premiare o punire, dopo una legislatura; il vantaggio, se non altro, di potere premiare un candidato dentro una lista che consenta alternative.

Quale sia e come si configuri il nesso di causa ed effetto a me pare, in tutta franchezza, davvero evidente. Con buona pace di chi pensa il contrario, non è Vespa che ha cambiato la politica italiana, è la politica che si è volutamente vespizzata, essendo risultata incapace (o senza la volontà) di trovare alternative. Lo dimostrano gli esiti delle tante altre opportunità, dei tanti possibili canali nuovi, talvolta sperimentali, di comunicazione e relazione che si sono aperti negli ultimi dieci anni, a partire dal pullman di Romano Prodi tra la primavera del 1995 e quella del 1996. Era parso allora a molti (e chi scrive non fa eccezione) che quel pullman e la gente incontrata lungo il viaggio avessero dato per la prima volta da tanti anni il segnale di una partecipazione popolare finalmente risvegliata. Ma nello stesso modo, se vogliamo, poteva essere interpretato anche il tentativo di radicamento territoriale di Forza Italia di poco successivo.

Tutto ciò che è venuto in seguito non ha dimostrato invece soltanto la straordinaria abilità delle menti comunicative nei partiti e nei poli a riprodurre serialmente le idee originali, banalizzandole: dalla nave, al treno, alla riedizione del pullman. Ha lasciato vedere piuttosto come le difficoltà strutturali della politica e dei suoi sforzi comunicativi non riescano a passare la soglia delle tecnicalità della propaganda, sondaggi americani inclusi. Non c’è dubbio che il blog di Beppe Grillo (e i suoi spettacoli) siano la parte emersa d’una dimensione comunicativa che la politica italiana non riesce ad affrontare, se non episodicamente. «Nessuno Tv», la televisione via web vicina ai Ds, così come in piccolo l’esperimento di telegiornale cittadino via web tentato da Sergio Cofferati durante la campagna per le comunali bolognesi del 2004, sono il contraltare all’uso della rete che fa Grillo. Nel caso del comico genovese c’è l’evidente capacità di costruire, mantenere e rinsaldare un rapporto con un pubblico di spettatori e utenti che riescono anche a sentirsi cittadini.

Nel caso dei partiti e dei loro poli c’è la palese incapacità ad andare oltre il momento della mobilitazione elettorale (o congressuale, o legata a singoli appuntamenti), evidenziando l’incomunicabilità di una nomenklatura che non riesce più a stabilire e mantenere contatti con il tessuto sociale nazionale. Ma forse, più di quest’ultimo che rischia d’apparire argomento fin troppo settoriale, conterebbe infine riandare alla sempiterna, e non solo per questo obsoleta, polemica sugli spazi assegnati nei telegiornali agli uomini e ai partiti politici. Dove si registra il supremo paradosso d’una politica che rivendica costantemente e violentemente spazio e tempo per non dire nulla. Già perché, che sia sotto forma di «pastone», intervista o dichiarazione, il massimo che tecnicamente un tg può regalare ad un politico sta tra i cinque e i sessanta secondi, incursioni berlusconiane escluse, ovviamente.

Non si dà quindi, per natura, che alcun personaggio politico possa esporre, né sostenere un argomento fondato. La sintesi giornalistica è chiaramente l’unico strumento attraverso il quale quegli argomenti possano essere presentati, ma la sintesi affidata alla mediazione e alla professionalità d’un giornalista è ormai da tempo bandita dal campo delle possibilità che la politica concede alla televisione (e che questa televisione concede a se stessa). Eccolo dunque il paradosso di questo primo decennio del nuovo secolo. Diventata essa stessa spettacolo, la politica ha riconquistato un primato vero. Non s’è piegata ai modi della televisione, ma è riuscita piuttosto a diventare uno dei generi televisivi di successo. Dove si spiega come il tema della qualità dell’informazione in televisione non sia tanto tema di qualità televisiva, ma più precisamente di qualità della politica.

 

Note

1 F. Colombo, La cultura sottile, Milano, Bompiani, 1998, p. 263. / 2  A. Agostini, Giornalismi. Media e giornalisti in Italia, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 69. / 3  A. Grasso, Storia della televisione italiana, Milano, Garzanti, 2000. / 4  P. Mieli, Il Metodo Mieli. Dal matrimonio fra la modernità di Repubblica e la tradizione del Corriere, fino al sogno dell’editore puro. Colloquio con Angelo Agostini, «Problemi dell’informazione», n. 1/ 2001, p. 9. / 5  G. De Rita, Composizione sociale e borghesia: un’evoluzione parallela, in A. Bonomi, M. Cacciari e G. De Rita, Che fine ha fatto la borghesia? Dialogo sulla nuova classe dirigente, Torino, Einaudi, 2004.

 

[A. Agostini, Lo spettacolo della politica, “il Mulino”, n. 2/2006, pp. 309-317]