Interpretare un’istituzione così complessa, come quella del pontificato cattolico sulla base di scadenze tipiche della politica, i cosiddetti primi cento giorni, rappresenta un azzardo. Eppure, trascorsi ormai più di quattro mesi dall'elezione, alcune linee di fondo, che credo rimarranno un aspetto centrale del ministero di papa Francesco, sono oramai emerse con una certa evidenza.

Mi sembra che l’aspetto centrale sia quello di una scelta di stile che, passo dopo passo, sta trasformando il modo esercizio e percezione del ministero ecclesiale del vescovo di Roma. Non penso vi sia nulla di costruito in tutto ciò, ma che si tratti di un profilo genuino della persona di Francesco. In uno spazio pubblico oramai assuefatto all’opacità e ambiguità che accompagna il ricoprire delle cariche istituzionali, questo dato non può che risaltare come un’anomalia – ed è proprio per questo che sta trovando un apprezzamento diffuso e trasversale. Il modo inusuale di essere papa di Francesco è dovuto alla sua scelta di voler rimanere coerente alla propria storia, alla sua comprensione di servizio alla Chiesa e alla gente, alla sua visione di cristianesimo coltivata nel travaglio di una vicenda di popolo lontanissima dalle logiche vischiose dell’apparato curiale. L’istituzione ha le sue regole e i suoi protocolli, certo, ma non si può svendere la genuinità di sé in funzione di essa. Su questo punto papa Francesco sembra essere di un’intransigenza che scompagina; e che dice qualcosa di decisivo sul significato di assumere una responsabilità ministeriale nella e per la Chiesa. L’uomo è genuino, ma non ingenuo – sa cosa è il potere, ne conosce le profondità più oscure, ne utilizza le dinamiche più virtuose, per il momento. 

Dove i più si fermano alla superficie delle cose, dei suoi gesti, Francesco sta mettendo ogni energia per ridare credibilità a un’istituzione che l’ha sbriciolata nell’arroganza della propria diversità, mostrando con un’ingenuità stupefacente la sua coerenza con le potenze del mondo. Egli ha compreso benissimo che procedure basate sul solo principio di autorità hanno efficacia sempre più limitata, supportano una sovranità che si fa sempre più volatile e impalpabile, e soprattutto feriscono le persone e aumentano la distanza della gente dall’istituzione stessa. Una Chiesa senza popolo reale è una contraddizione di termini. In questo, Francesco sta svolgendo sicuramente un’attività politica – con le parole e le risorse spirituali dell’Evangelo. In questa stagione, e non solo a lui, ci sono rimaste solo le parole, così fragili, così fraintendibili, per cercare di immaginare un mondo e una vita umana che non siano misurati solo sulla base della convenienza economica, che non siano ridotte alla logica del massimo vantaggio. Gli «ultimi» che stanno così a cuore a papa Francesco sono il «possibile» che si adombra sull’esistenza di ogni uomo e donna del nostro tempo – anche dei potenti di questo mondo. Forse proprio per questo ci sentiamo tutti presi un po’ in considerazione quando Francesco entra nella miseria di una favelas brasiliana: dare dignità all’umano di chi è considerato poco più di un numero o di una merce. La sua attenzione ai giovani rimane un monito per una società che si consuma nell’attimo presente, che ha volutamente scelto di esaurirsi nell’avidità del momento senza pensare al domani che lasceremo in eredità. La generazione non è solo un atto fisico, ma una prospettiva complessiva dell’esistenza, la scelta di un mondo che non si esaurisce con me, i miei interessi, i miei desideri. Neanche troppo nascostamente papa Francesco pone ai giovani la necessità di una scelta, di un’assunzione di responsabilità: quella passione che restituisce a una vita che non si consuma. 

Con quella costanza che può essere propria solo a una chiara idea progettuale, Francesco sta ridisegnando la cartografia della Chiesa e dei suoi luoghi – basti pensare allo slittamento della parola magisteriale autorevole nello spazio della predicazione mattutina a S. Marta. In tal modo egli va creando uno spazio di libertà, di possibilità, di ideazione. Non attendiamoci che ci dica lui cosa fare di questo spazio che ci viene restituito; non lo farà, perché è nostro e non suo: lui ce lo ha reso semplicemente praticabile di nuovo, dopo che era stato indebitamente sottratto al popolo che è la Chiesa da un’indebita pervasività del potere ecclesiastico. In questo spazio si deciderà della qualità della fede dei credenti comuni, si vedrà se la Chiesa come istituzione potrà fare affidamento sulla responsabilità in prima persona e sulle competenze dei singoli cristiani. Non abbiamo più scuse e, soprattutto, ci è stato tolto di mano il giochino del risentimento e della lamentazione continua: oramai siamo messi a nudo anche noi e si vedrà di quale pasta siamo fatti.

Anche il mondo laico si trova radicalmente interpellato da questo primo periodo del ministero di Francesco. Dismessa l’armatura dello scontro frontale, abbandonato il vocabolario della legge naturale, riconosciuta la dignità di un interlocutore che non è «dei nostri», il papa chiede a quel mondo non discettazioni sulle alchimie costituzionali del rapporto Stato-Chiesa, ma idee e argomenti che non solo tengano, ma siano anche efficaci - in grado di sostenere l’umano a riappropriarsi responsabilmente del proprio destino, senza delegarlo a terzi invisibili che non abitano alcun luogo.