La riconferma di Macron all’Eliseo è stata accompagnata da un sospiro di sollievo nelle principali capitali europee e a Bruxelles. Un presidente europeista ha trionfato riaffermando – lo ha sottolineato Marc Lazar – come la grandezza della Francia dipenda strettamente da quella dell’Europa e ha celebrato la vittoria al Champ-de-Mars sulle note dell’Inno alla gioia. Quattordici anni dopo l’ultima volta, infine, Parigi esercita la presidenza dell’Ue, mentre Macron – complice l’uscita di scena di Angela Merkel – si accredita come il principale leader europeo.

Eppure, paradossalmente, l’Europa è guardata con estrema diffidenza in Francia. La recente campagna presidenziale ha visto gran parte dei candidati assumere posizioni euroscettiche e al primo turno i sostenitori di un rifiuto o di un ridimensionamento delle prerogative dell’Ue, quantomeno nella sua forma attuale, si sono dimostrati ampiamente maggioritari. Una tendenza confermata puntualmente da inchieste e rilevazioni. L’Eurobarometro 96, pubblicato ad aprile 2022, mostra come l’opinione pubblica francese sia la più euroscettica d’Europa: solo il 32% dei francesi dichiara di «avere fiducia nell’Unione europea» (la media Ue è il 47%) e appena il 36% ne ha un’«immagine positiva» (rispetto al 44% della media Ue).

Da quando e per quali ragioni i francesi hanno preso le distanze da un progetto nato proprio a Parigi, con l’appello fondatore lanciato da Robert Schuman alle 16 del 9 maggio 1950, nel Salone dell’Orologio del Quai d’Orsay?

È possibile distinguere, a grandi linee, tre fasi nell’evoluzione dei rapporti tra i francesi e l’Ue. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta è la stagione della lunga «luna di miele», nel corso della quale la Francia risulta tra le nazioni più convintamente europeiste. È l’«età dell’oro» del motore franco-tedesco, quando ogni progresso dell’Europa passava inevitabilmente da Berlino e Parigi e in cui ogni tappa significativa per i destini europei sembrava ribadire questa associazione, cementata dalle mitiche coppie de Gaulle-Adenauer, Giscard-Schmidt sino al triangolo Mitterrand-Kohl-Delors.

È la stagione in cui si consolida la rassicurante idea dell’«Europa francese», alimentata con accenti diversi da tutti i capi dello Stato della V Repubblica, che solleticano le ambizioni di potenza dei propri concittadini, umiliate all’indomani della fine dell’Impero coloniale. Nel progetto europeo, ha sintetizzato Zbigniew Brzezinski, la Germania cerca la redenzione dalle proprie colpe, la Francia la reincarnazione della grandeur passata. I francesi si convincono che il proprio Paese non sia più una grande potenza ma che, grazie all’Europa e all’asse con la Germania, possa continuare a svolgere un ruolo di primo piano sulla scena internazionale. Proprio nel contesto dell’entrata in vigore dell’Atto unico europeo, con Mitterrand all’Eliseo e Delors alla guida della Commissione, il sostegno dei francesi al progetto comune raggiunge l’acme, con il 74% che, nell’autunno 1987, dichiara come l’appartenenza del proprio Paese all’Ue sia «un dato positivo».

A partire dall’inizio degli anni Novanta, con la fine della Guerra fredda e i negoziati di Maastricht, si chiude la fase della «luna di miele» e inizia una nuova stagione di «europeismo conteso». Con la fine del comunismo e la dissoluzione di un Impero che, per antitesi, aveva favorito la definizione di un confine geografico e identitario europei, sono gli stessi orizzonti della costruzione comunitaria a patirne. L’Ue ha perso la propria carica ideale così come alcuni dei principali parametri di legittimazione che avevano accompagnato la sua nascita e il suo sviluppo: quello politico (costruire un solido argine anticomunista), quello militare (restare protetti sotto l’ombrello americano) e quello storico (la riconciliazione franco-tedesca).

Sceso dal piano dell’utopia a quello del reale, il sistema europeo si è visto così ancorato all’ultimo obiettivo ancora attuale: quello del raggiungimento di un benessere diffuso, proprio nel momento in cui quest’ultimo è parso minacciato agli occhi dei francesi. L’Ue, complice un quadro economico sempre più complesso e difficile, non è più stata intesa come una sorta di «isola felice» capace di tenere lontane le preoccupazioni del mondo, ma come un tassello di un ordine mondiale ormai inserito nel vorticoso ciclo della globalizzazione.

L’Ue ha perso la propria carica ideale così come alcuni dei principali parametri di legittimazione che avevano accompagnato la sua nascita e il suo sviluppo

Se l’approvazione di misura del trattato di Maastricht sancisce un primo campanello d’allarme, a partire dalla metà degli anni Novanta le inchieste di Eurobarometro testimoniano come la percentuale di francesi che giudica positiva l’appartenenza del proprio Paese all’Ue sia stabilmente inferiore al 50%. L’Europa, percepita come garante degli obiettivi di pace e crescita economica nei tre decenni successivi agli accordi di Roma (1957), diventa progressivamente il capro espiatorio delle difficoltà d’Oltralpe. Di fronte a questa trasformazione di prospettiva l’Ue ha proseguito, accelerando, il suo progetto di allargamento, dando l’impressione di un cortocircuito che avrebbe cancellato frontiere, identità e tutele sociali. I francesi hanno scoperto un’Europa sempre meno «francese», le cui regole di funzionamento sono parse incomprensibili e all’interno della quale si sono sentiti progressivamente estranei.

Il 29 maggio 2005 la bocciatura referendaria del trattato costituzionale ha rappresentato una rottura traumatica nel percorso europeo di Parigi e, al contempo, una clamorosa sconfessione da parte dei francesi della classe politica tradizionale, schierata ampiamente per il «sì» (dal presidente della Repubblica Chirac a quello della Convenzione europea, Giscard d’Estaing, passando per tutte le principali forze politiche di governo). La netta vittoria del «no» (54,7%) sancisce l’avvio di una fase di «euroscetticismo diffuso» (dalla fine degli anni Duemila solo un terzo dei francesi, mediamente, dichiara di avere un’«immagine positiva» dell’Ue) ed evidenzia la sensibilità dell’opinione pubblica alle sirene dell’estremismo.

Questa frattura politica si somma e, contemporaneamente, approfondisce una frattura sociale già emersa distintamente in occasione del voto su Maastricht, che aveva dimostrato come l’integrazione europea fosse vista con particolare ostilità dalle classi popolari e dalle fasce meno scolarizzate della popolazione. Il raffronto tra il voto del 2005 e quello del 1992 evidenzia l’ascesa dell’euroscetticismo lungo la scala sociale: il «no» si consolida tra gli operai (79% rispetto al 61% del 1992) e gli impiegati (67% rispetto al 53%) e soprattutto diventa maggioritario tra le classi medie, con una progressione di 19 punti (53% rispetto al 38% del 1992).

Il cristallizzarsi di un ampio blocco politico-sociale euroscettico negli ultimi quindici anni ha limitato l’azione europeista dei governi francesi e marginalizzato Parigi in seno a un’Ue sempre più a guida tedesca, in cui la leadership di Angela Merkel è apparsa incontestata. Se le presidenze Sarkozy e Hollande si sono dimostrate incapaci di invertire la rotta, anche il primo mandato di Macron ha in buona misura deluso chi confidava nell’europeismo dichiarato del leader di En Marche! per un rilancio del ruolo francese nell’Ue.

Anche il primo mandato di Macron ha in buona misura deluso chi confidava nell’europeismo dichiarato del leader di En Marche! per un rilancio del ruolo francese nell’Ue

All’indomani dell’investitura per il secondo mandato Macron si trova di fronte a un contesto estremamente delicato ma più favorevole rispetto a cinque anni fa. Nel 2017 l’Europa era traumatizzata da tre crisi recenti – quella dell’Eurozona, dei migranti (2015), il referendum sulla Brexit (2016) – che l’avevano indebolita e divisa. Cinque anni dopo il quadro appare differente. Il terremoto economico generato dalla pandemia e l’aggressione russa all’Ucraina hanno favorito la consapevolezza della necessità di una maggiore integrazione e sovranità europea, favorendo un’accelerazione su due direzioni fortemente volute da Parigi: il superamento dei vincoli del patto di stabilità e la sicurezza europea. Parigi è stata recentemente all’origine di numerose iniziative comuni – dal Fondo europeo di difesa al Recovery Plan – e la sua agenda europea è ormai in posizione di forza. L’uscita di scena di Angela Merkel, le divisioni della coalizione tedesca, il rilancio delle relazioni con vari partner (tra cui l’Italia, con il trattato del Quirinale), la rottura del fronte di Visegrad e l’isolamento di Orbán hanno inevitabilmente portato a identificare in Macron il nuovo leader di un’Ue ricompattata dalla minaccia russa alle proprie porte. La finestra di opportunità è senza precedenti e Macron dovrà approfittarne per rilanciare il progetto comune e, al contempo, convincere i francesi di come i loro destini siano inevitabilmente legati a quelli di un’Europa nuovamente insidiata da venti di guerra. Saprà farlo?