Aspettando il 7 maggio. Il primo turno delle presidenziali in Francia ha prodotto un esito al tempo stesso scontato e storico. I sondaggisti francesi hanno evitato figuracce e il ballottaggio del 7 maggio prossimo vedrà presenti Emmanuel Macron e Marine Le Pen, come da tempo annunciato.Ma il fatto che un simile esito fosse preventivato non ne depotenzia affatto l’importanza e gli aspetti di novità.

Per la prima volta nella storia della Quinta Repubblica il candidato gollista e quello socialista sono fuori dal secondo turno. La doppia esclusione di François Fillon e Benoit Hamon segnala inequivocabilmente una profonda crisi dei due assi portanti dell’evoluzione politico-istituzionale del sistema creato dal generale de Gaulle, poi consolidato dalla prima alternanza mitterrandiana del 1981.

A contendersi l’Eliseo sono, dunque, due outsider. Da un lato Macron, che salvo sorprese diventerà l’ottavo presidente della Quinta Repubblica: mai iscritto a un partito politico, né eletto, nemmeno in un consiglio comunale. Mai era accaduto che un consigliere politico, poi ministro per due anni, si trovasse a un passo dall’Eliseo. Dall’altro lato Marine Le Pen, da quando nel 2011 ha preso la guida del Front National, si è posta come obiettivo quello di stravolgere il monopolio tradizionale gollisti-socialisti. I due «dinamitardi» del sistema hanno rifiutato entrambi il tradizionale strutturarsi della Quinta Repubblica lungo un asse destra-sinistra e di conseguenza attorno alla classica logica bipolare e tendenzialmente bipartitica.

E su questo punto che si inserisce il terzo elemento di grande impatto di questo primo turno. Macron ha lottato e ha imposto la sua candidatura al di là della logica destra/sinistra ma anche oltre quella di un mero centrismo, proponendo il clivage conservatori vs. progressisti, apertura vs. chiusura, europeismo vs. nazionalismo. Dal canto suo Marine Le Pen ha seguito specularmente il candidato di «En Marche!» proponendo una bipartizione tra patrioti ed europeisti (e mondialisti), tra una France d’en bas e una France d’en haut. Ebbene questa Francia profondamente divisa e fratturata alla quale i due candidati «anti-sistema» si sono rivolti (e con loro il leader della France insoumise Mélenchon) è quella fotografata dal voto del 23 aprile 2017.

È una Francia attraversata da una doppia frattura. Da una parte la frattura tra una Francia urbana, che vota massicciamente Macron, e una rurale e periurbana, che vota in larga maggioranza Le Pen (e in alcuni casi massicciamente Mélenchon). Gli esempi da citare sarebbero molti, tra gli altri naturalmente Parigi che plebiscita Macron con il 34,8% e lascia a Le Pen meno del 5%. Anche in zone di voto frontista come l’estremo est del Bas-Rhin, con Marine Le Pen al 25%, e del nord, con Marine Le Pen al 30%, nei rispettivi centri urbani principali la deputata europea si ferma al 12,17% di Strasburgo e al 13,8% di Lille. Dall’altra abbiamo una frattura geografica, con l’est e il sud profondamente frontisti e l’ovest e l’area di Parigi di voto maggioritario a Macron. Se si osservano questi dati con attenzione, a riproporsi è una più ampia frattura che caratterizza l’evoluzione politico-elettorale del Paese a partire dal referendum sul Trattato europeo di Maastricht del settembre 1992 (nel quale i «sì» prevalsero di misura) poi riproposta (ma con prevalere dei «no») nel maggio 2005 per la ratifica del Trattato costituzionale europeo.

Accanto alla rilevanza di questi tre elementi non si possono trascurare alcuni interrogativi che il primo turno ha evidenziato. Prima di tutto quale futuro per il Ps? La debacle di Hamon è solo paragonabile a quella di Gaston Defferre nel 1969. Quel voto segnò la fine della Sfio, la rifondazione del socialismo francese e l’affermarsi del mitterrandismo. Oggi il quadro appare, se possibile, ancora più complesso.

Specularmente quale futuro per Les Républicains? Fillon, come scontato, ha già fatto un passo indietro. Rimane da capire se la destra repubblicana verrà assorbita da una complessiva ristrutturazione del quadro politico, dividendosi tra macronismo e frontismo, o se riuscirà a utilizzare le prossime elezioni legislative per costruirsi una «rivincita», magari imponendo al nuovo inquilino dell’Eliseo una sorta di coabitazione sin dal prossimo giugno.

E qui si innesta il terzo interrogativo chiave. Con chi e come governerà Macron, se dal voto del 7 maggio uscirà come nuovo presidente francese? La risposta più semplice è che, complice la quasi certa minore partecipazione alle legislative di giugno e l’effetto trascinamento della vittoria presidenziale, il nuovo presidente riuscirà a ottenere un’ampia maggioranza En marche majorité presidentielle all’Assemblée nationale. Una visione meno ottimistica è quella che invita invece l’enarca a riflettere prima di tutto su uno score del primo turno piuttosto modesto. Rispetto al suo 24%, solo Chirac nel 1995 e nel 2002, tra coloro che sono poi stati eletti, ha fatto peggio di lui al primo turno (ad esempio Hollande nel 2012 aveva preso il 28,6% e anche la sconfitta Segolène Royal, al primo turno del 2007, aveva preso un milione di voti in più). In secondo luogo lo invita a ricordare che se si sommano i voti di Marine Le Pen, quelli dei Mélenchon e quelli del sovranista Dupont-Aignan, al primo turno circa un francese su due ha scelto l’opzione chiusura e anti-europeismo (ai quali si deve poi aggiungere un 22% di astensionismo). E infine il leader di «En Marche!» non dovrebbe nemmeno dimenticare che proprio il 4,7% del poco citato dalle analisi ufficiali Dupont-Aignan è in larga parte responsabile dell’esclusione dal ballottaggio di un Fillon falcidiato dalle inchieste giudiziarie. E uno scontro Fillon-Macron sarebbe stato di ben altra difficoltà per colui che si accinge ad essere il nuovo «monarca repubblicano«, ma con un quadro ben meno roseo di quello che può apparire ad un primo sguardo.

E infine un ultimo interrogativo riguarda Marine Le Pen. È lei la vera sconfitta di questo primo turno? È vero la sua presenza al ballottaggio, con uno score di oltre due milioni di voti in più rispetto al padre nel 2002, ha un forte impatto e per certi versi Macron è il suo competitor ideale. Si è detto delle possibilità del Fn di lavorare per destrutturare l’intero spazio politico della destra francese. Ma se alla chiusura delle urne il 7 maggio la sconfitta dovesse essere netta, si aprirebbe senza dubbio una resa dei conti interna al frontismo a guida Marine e ci si interrogherebbe proprio sull’incapacità del Front di percorrere l’ultimo tratto che lo separa dalla conquista del potere. Così era stato nel dicembre 2016 per le elezioni regionali e così sembra delinearsi per la corsa all’Eliseo.

Le prossime settimane in larga parte scioglieranno questi interrogativi. E per poter dire che il 23 aprile 2017 è stata una data storica, da accostare al 10 maggio 1981 e al 21 aprile 2002, bisognerà attendere almeno sino al 7 maggio prossimo, se non fino al voto legislativo dell’11 e 18 giugno.