Sacchi di sabbia attorno ai monumenti, tele staccate dalle cornici e arrotolate, depositi di opere come rifugi antiaerei. Da un anno a questa parte la guerra in Ucraina ha riportato attuali le strategie di protezione delle opere d’arte in tempo di guerra. Istantanee di cronaca che rievocano, in Italia, una vicenda epica di salvataggio del patrimonio artistico nazionale di cui sono stati protagonisti soprintendenti e storici dell’arte. Il loro impegno è oggetto della mostra Arte liberata 1937-1947. Capolavori salvati dalla guerra (a cura di Luigi Gallo e Raffaella Morselli), organizzata dalle Scuderie del Quirinale in collaborazione con la Galleria nazionale delle Marche, l’Iccd e l’Archivio Luce - Cinecittà.

A partire da documenti d’archivio, diari, lettere, documentazione fotografica, l’esposizione mette in luce le operazioni – spesso condotte in prima persona e con scarsità di mezzi – che figure come Pasquale Rotondi, a capo della Soprintendenza alle Antichità e Belle arti delle Marche e della Dalmazia, Emilio Lavagnino della Soprintendenza di Roma, Bruno Molajoli di quella di Napoli, Jole Bovio Marconi per Palermo e Trapani, e poi Fernanda Wittgens a Milano, Rodolfo Pallucchini a Venezia, Francesco Arcangeli a Bologna, Palma Bucarelli e Aldo De Rinaldis a Roma, Giovanni Poggi a Firenze, Antonio Morassi e Orlando Grosso a Genova hanno condotto per mettere in salvo un patrimonio di inestimabile valore  (qui il racconto della mostra).

Le prime direttive per la Protezione anti-aerea (Paa) vengono emanate da Giuseppe Bottai – ministro dell’Educazione nazionale da cui dipendeva anche la giurisdizione sulle Antichità e le Belle arti – nel 1938: la datazione può stupire, siamo ancora ben lontani dallo scoppio della Seconda guerra mondiale e, soprattutto, dall’entrata nel conflitto dell’Italia. Ma questo Paese era già in guerra da tempo: con l’aggressione all’Etiopia nell’ottobre 1935 l’Italia diventa una nazione belligerante e, come tale, oggetto di sanzioni e di potenziali azioni militari. Queste prime circolari ministeriali, riservatissime, danno indicazioni per come mettere in sicurezza il patrimonio storico-artistico, in particolare individuando dei luoghi che possano costituire un rifugio lontano dalle operazioni di un eventuale conflitto.

Nel settembre 1939 la situazione si fa chiaramente più critica, così la direzione generale del Ministero incarica il giovane storico dell’arte Pasquale Rotondi – appena nominato soprintendente delle Marche – di realizzare un grande ricovero che possa raccogliere opere d’arte provenienti da diversi musei, chiese, istituzioni anche di altre regioni. Il Palazzo ducale di Urbino è considerato un luogo adatto poiché ritenuto lontano da obiettivi militari. È Rotondi a rendersi conto che questa previsione non corrisponde alla situazione reale, visto che è in progetto la creazione di un arsenale bellico presso una galleria ferroviaria prossima alla città. Si deve al giovane soprintendente la ricerca e, dopo diversi sopralluoghi, l’individuazione di un ricovero adeguato: la Rocca di Sassocorvaro, e poi anche il Palazzo dei principi Falconieri di Carpegna, dove arriveranno opere, tra le altre, dalle gallerie Borghese e Corsini di Roma, le collezioni sforzesche e di Brera da Milano, il Tesoro di San Marco da Venezia.

La dorsale appenninica ospitò diversi ricoveri, accogliendo casse di sculture, tele, maioliche, libri, terracotte, bronzi e altri reperti archeologici, spostati grazie a rocamboleschi trasporti con mezzi di fortuna

Se guardiamo alla tipologia dei ricoveri individuati dalle diverse soprintendenze regionali, abbiamo una ricorrenza di castelli, rocche, ville, monasteri: le linee ministeriali suggerivano di cercare immobili isolati in aperta campagna, dotati di strutture solide, in buone condizioni termiche e igrometriche, con possibilità di avere accesso all’acqua in caso di incendi. Soprattutto, dovevano essere luoghi lontani da obiettivi sensibili, come linee ferroviarie, centri industriali, strutture militari. La dorsale appenninica ospitò diversi di questi ricoveri, accogliendo casse di sculture, tele, maioliche, libri, terracotte, bronzi e altri reperti archeologici, spostati grazie a rocamboleschi trasporti con mezzi di fortuna, iniziati nel 1940 e ripresi nell’estate del 1943, dopo che lo sbarco in Sicilia e l’avanzata Alleata da Sud avevano diffuso il timore che alcuni rifugi non fossero più così sicuri. Infatti, la geografia della guerra era destinata a cambiare: divennero obiettivi sensibili anche piccole frazioni e luoghi isolati, arroccati sulle montagne, lontani da tutto ma percorsi dalla linea mobile del fronte che avrebbe attraversato per un anno e mezzo la penisola.

Amedeo Maiuri, soprintendente ai Beni archeologici della Campania, nelle sue memorie racconta la difficoltà di ultimare i lavori di spostamento dei beni artistici e archeologici della Campania a inizio settembre 1943 per poi trovarsi di fronte, con sconcerto e rinnovato timore, all’improvviso annuncio dell’armistizio e alla reazione dell’ex alleato tedesco, che occupò il Paese. Dopo quella data, si crea anche in Italia – fronte tardivo di quella guerra – una complessa situazione dove diverse agenzie si contendono il patrimonio artistico, nell’intento da un lato di sequestrarlo, dall’altro di proteggerlo.

Se in mostra si ricostruisce l’operato dei soprintendenti italiani, è solo accennato il contesto più ampio in cui si inserisce il loro impegno, ossia la presenza di altri storici dell’arte, archeologi, bibliotecari nelle file del Mfaa - Monuments Fine Arts and Archives Program – l’organismo degli eserciti alleati impegnato nella protezione delle opere dai bombardamenti e dai saccheggi – ma anche del Kunstschutz – il servizio militare tedesco di protezione delle opere. Inoltre, se già da tempo si muovevano in Italia gli spregiudicati consulenti delle collezioni private di Hitler e Göring, arrivarono anche gli uomini dell’Err (Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg), che stavano confiscando in tutta Europa collezioni di beni artistici e librari per gli istituti di ricerca del regime.

Per una beffa della storia, il ricovero più sicuro per le collezioni campane era stato individuato nel monastero di Montecassino. È vicenda nota: l’antico monastero benedettino si venne a trovare sulla Linea Gustav, area di fronte e di combattimenti tra alleati e tedeschi tra l’ottobre 1943 e il maggio 1944. La divisione “Hermann Göring”, stanziata nei dintorni a controllo della linea difensiva, si occupò del trasferimento del tesoro abbaziale e delle casse dei musei campani prima a Spoleto e poi – dopo un complesso lavoro di diplomazia internazionale – a Roma, per essere consegnati parte al Vaticano, l’8 dicembre 1943 a Castel Sant’Angelo, e parte allo Stato italiano, il 4 gennaio 1944, con tanto di cerimonia ufficiale in piazza Venezia.

In mostra è presentato un cinegiornale tedesco, conservato all’Istituto Luce, in cui vengono proposte le immagini della riconsegna ufficiale delle opere, in piazza Venezia, mancando tuttavia di sottolineare come tutta l’operazione fosse ammantata di propaganda e fatta in favore di camera. Due camion, infatti, non erano arrivati a destinazione, e con loro quindici casse con le opere più preziose delle collezioni di Capodimonte e dei musei archeologici di Pompei ed Ercolano: erano un “dono” per Hermann Göring.

La divisione era una peculiare unità: aggregata alla Luftwaffe, era nata come corpo di polizia particolarmente ideologizzato e brutale, al servizio di Göring. In quei mesi in Italia, si era distinta per uno spregiudicato uso della violenza nei confronti della popolazione civile: gran parte degli eccidi avvenuti in Campania e nel Basso Lazio tra il settembre e l’ottobre 1943 vanno ascritti a questa divisione; altri li effettuerà in Emilia e Toscana nella primavera 1944.

Come noto, Hermann Göring amava circondarsi di opulenza e arte: a partire dal 1933 aveva fatto costruire Carinhall, la sua reggia e tenuta di caccia in Brandeburgo, nella foresta di Schorfheide, tra i laghi Großdöllner See e Wuckersee. Qui esibiva i suoi trofei: grandi palchi di corna di cervi e statue raffiguranti questi stessi animali, ma anche dipinti e arazzi, sculture lignee e marmi antichi, in parte acquisiti tramite mercanti d’arte, in parte requisiti nei grandi musei europei dopo l’occupazione nazista. Per questo stupisce come la reazione di Göring a questo “dono” della sua divisione da Montecassino sia stata così fredda. Le opere di quelle casse trafugate non furono mai registrate nell’inventario, altrimenti precisissimo, della sua collezione. Da alcuni documenti pare che siano state accantonate per una futura mostra che non si fece mai, poi furono portate in un bunker della contraerea a Potsdam.

Abbiamo documentazione fotografica solo di un pezzo proveniente da quelle casse e collocato in posizione d’onore a Carinhall: uno dei cerbiatti della villa dei Papiri di Ercolano. In mostra, il raffinatissimo bronzo è esposto accompagnato da una gigantografia di un famoso scatto in cui Hitler e Göring discutono, appoggiati su una balaustra rivolta verso il lago, accanto al cerbiatto. La scelta di esporre le opere in originale accanto a fotografie che mostrano dove, e come, si trovavano negli anni della guerra, è forse una delle più emozionanti del percorso proposto. Con un cortocircuito di spazio e tempo, allo stesso tempo ammiriamo il discobolo Lancellotti come lo ammirò Hitler alla Gylptothek di Monaco di Baviera nel luglio del 1938, dopo che Leni Riefenstahl lo aveva usato come corpo perfetto di atleta nell’incipit di Olympia, nel 1936, e dopo una vendita molto osteggiata dallo stesso Bottai. La Crocefissione di Luca Signorelli è esposta accanto a un’immagine che la vede appena scaricata da un camion del Kunstschutz tedesco, trasportata da Firenze all’Alto Adige; la Madonna in trono di Andrea Briosco assieme a uno scatto in cui la si vede su un vagone ferroviario pronto a partire per la Germania, ma fermato dagli Alleati.

Al cospetto di queste opere “salvate” insieme alla documentazione visiva di un momento cruciale del loro recente passato, si prova un brivido, come di fronte a testimoni muti degli eventi della storia, dalla Seconda guerra mondiale fino a risalire molto più indietro, dalle guerre napoleoniche all’eruzione del Vesuvio. Un pensiero che forse non attraversa la mente a vederli semplicemente esposti nei musei cui appartengono oggi.

Al cospetto di queste opere “salvate” insieme alla documentazione visiva di un momento cruciale del loro recente passato, si prova un brivido, come di fronte a testimoni muti degli eventi della storia

L’opera forse più nota, tra quelle esposte in mostra, è la Danae di Tiziano, presentata con accanto una fotografia che la vede contemplata da uno dei suoi “salvatori”, Rodolfo Siviero, in occasione della Mostra delle opere d’arte recuperate in Germania, inaugurata alla Villa Farnesina a Trastevere il 9 novembre 1947. Parte delle collezioni napoletane ricoverate a Montecassino, secondo Siviero – figura complessa e ambigua di giornalista, agente segreto, fascista e antifascista, tra i protagonisti del salvataggio e del recupero delle opere italiane – fu oggetto delle attenzioni di Göring che, nel resoconto dell’agente italiano, aveva scelto di collocarla prima al centro del soffitto della propria stanza, e poi come testata del letto, per contemplarla da sdraiato. Tuttavia, queste parole di Siviero, riprese in mostra, non hanno mai trovato conferma.

Dopo lo spostamento delle opere nel rifugio presso le miniere di sale di Altaussee, in Austria, Carinhall venne fatta saltare in aria alla fine di aprile 1945. Della reggia di caccia di Göring restano solo poche macerie, statue ritrovate nel lago negli anni Novanta e moltissime fotografie. In una di queste è possibile vedere proprio il letto a baldacchino, con sulla testata – e in un altro scatto sul soffitto – un dipinto che potrebbe, di primo acchito, far pensare alla Danae di Tiziano, ma si tratta di un’altra opera, per certi aspetti più consona a rendere i bramosi appetiti del maresciallo del Reich e del nazismo: Europa und der Stier (Europa e il toro), di Werner Peiner, un pittore coevo al nazismo e amato dal regime per il suo stile algido, anticheggiante, conservatore.

Probabilmente, l’immaginario da decadenza di antichi imperi uscito dall’arguta penna di Siviero scaturiva dai miti che il nazismo stesso aveva alimentato: dalle speeriane rovine di pietra per il Reich millenario, alla bramosia per l’arte da parte di uomini potenti e brutali. Nel luglio 1944 “Time” titolava proprio Nudes for Hermann un articolo sul furto di Montecassino: i nudi femminili – una minoranza tra i soggetti delle opere trafugate – diventavano emblema della violenza del nazismo sull’Europa. Non è un caso che uno dei più noti volumi dedicati alle opere d’arte depredate dai nazisti sia The Rape of Europa (Lynn H. Nicholas, 1995). Quello che in italiano è ratto, ossia rapimento specificamente di donne, nella traduzione inglese diviene rape: la radice è la stessa, dal latino rapĕre, afferrare velocemente (rapido), da cui saccheggiare, depredare, rubare, rapire, trascinare con sé – cose e donne. Se nell’italiano il senso prevalente è quello del portare via con la forza, nell’inglese il termine esplicita la violenza carnale.

La sensuale Danae bramata da Zeus era perfetta per costruire una narrazione del gerarca nazista come potente bramoso, lascivo, decadente. Tuttavia, politicamente e storicamente, la figura di Göring è stata certamente più complessa dello stereotipo con cui spesso viene dipinta. Nella residenza di Carinhall – concepita come un palcoscenico in cui mettere in scena il proprio potere, anche rispetto a Hitler – il Reichsmarschall voleva mostrarsi come un principe rinascimentale, amante dell’arte e della caccia. Ed è per questa seconda passione che, più che Danae, l’unica opera sottratta a Montecassino ad avere avuto un posto di rilievo nella reggia nazista fu il cerbiatto di Ercolano, al cui cospetto si prova un senso di vertigine per la contrazione della storia nella sua perfetta, atemporale, figura.